L'interno di una delle sale del Palazzo Barberini di Roma, con la mostra Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento

"Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento" è in mostra al Palazzo Barberini di Roma fino al 27 marzo 2022

Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta, eroina rivoluzionaria

Fino al 27 marzo 2022, Palazzo Barberini a Roma propone una mostra dedicata all’eroina biblica. Un percorso in 31 opere che parte da 2 capolavori: quello del Merisi, conosciuto come Caravaggio, e quello della Gentileschi, grande pittrice che seppe ribellarsi alla morale dell’epoca

Il conte Ottavio Costa, banchiere e mecenate vissuto a Roma tra Cinque e Seicento, era così geloso della Giuditta che decapita Oloferne che aveva commissionato a Caravaggio, da nasconderla agli sguardi estranei con un drappo di seta: il collezionista ne aveva vietato la riproduzione, temendo sia che il dipinto si svalutasse che l’alienazione dopo la sua morte. Eppure, potenza della fuga di notizie allora come oggi, ben presto i pittori presero a dipingere il tema biblico alla sua maniera, tanto che, a Palazzo Barberini, le Gallerie Nazionali di Arte Antica guidate da Flaminia Gennari Santori, hanno potuto pensare una splendida mostra, a cura di Maria Cristina Terzaghi, dedicata all’influenza che quella Giuditta caravaggesca ha avuto sui contemporanei e su una delle pittrici più conosciute dell’epoca, quella Artemisia Gentileschi che con il Merisi condivide qui esposizione e catalogo.

Giuditta e Oloferne, olio su tela di Caravaggio, dipinto nel 1600 circa. Caravaggio rappresenta l'episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera
Giuditta e Oloferne, olio su tela di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Dipinto intorno al 1600, fu commissionato dal banchiere Ottavio Costa

Il racconto di Giuditta

Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento si configura così come un’indagine, venata da non pochi tratti poetici, sulla capacità dei capolavori di veicolare nuove storie e nuove opere d’arte.
D’altronde, il racconto della giovane che, sprezzante del pericolo, per liberare la patria dall’assedio nemico, seduce e uccide il generale delegato dal sovrano assiro a conquistare la città di Betulia, ben si è prestato nei secoli a dipinti carichi di simbolismi.
Acquisita dallo Stato italiano nel 1971, la tela è stata attribuita al Merisi solo nel 1951 quando, riscoperta da Pico Cellini, uno dei massimi restauratori del Novecento, è stata esposta per la prima volta nella grande mostra dedicata a Caravaggio e ai pittori caravaggeschi, a Palazzo Reale a Milano. La celebre esposizione voluta da Roberto Longhi fece scoprire la modernità dell’artista, delegittimando la lettura accademica dominante di considerarlo come l’ultimo dei classici rinascimentali.

Bellezza rivoluzionaria

La grandezza rivoluzionaria decantata da Longhi? Basta entrare nella seconda sala dello spazio mostre di Palazzo Barberini per esserne travolti: in fondo alla stanza, svetta al centro il viso di Oloferne, sfigurato in un grido di dolore, gli occhi già privi di vita; la spada con il secondo dei due colpi inferti dalla vedova ebrea ha provocato il distacco della testa e un violento fiotto di sangue sembra non avere fine.
Carnefice, la seducente Giuditta, nelle sue vesti di ricca cortigiana, assorta nell’omicidio che sta compiendo, è intenta a recitare le parole «Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento», secondo quanto è scritto nel Vecchio Testamento (Gdt, 13, 7-8).
La serva anziana Abra non la attende fuori dalla tenda, come nel racconto biblico, ma è alle sue spalle, che sobbalza dall’orrore: contrapposto retorico per evidenziare la bellezza della giovane Giuditta. Caravaggio rompe così la tradizione, che voleva la rappresentazione del fatto già commessa, e mette in scena un vero e proprio assassinio, mediante decapitazione.

Un ritratto di Caravaggio di Ottavio Leoni, risalente al 1621 circa
Michelangelo Merisi, universalmente noto come Caravaggio, ritratto da Ottavio Leoni nel 1621 circa

La messa in scena e la realtà

Non a caso, come ha evidenziato Maria Cristina Terzaghi, era stato Leonardo da Vinci a raccomandare che i pittori assistessero alle esecuzioni capitali, così da apprendere i moti improvvisi dell’animo e poterli poi riprodurre. E la decollazione che Caravaggio doveva aver visto poco prima di dipingere era stata con molte probabilità quella di Beatrice Cenci, giustiziata per parricidio nella piazza antistante Castel Sant’Angelo l’11 settembre 1599 (e non si può non consigliare una visita qualche piano sopra l’esposizione, per ammirarne nella collezione della Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini lo splendido ritratto attribuito ora a Guido Reni ora a Elisabetta Sirani).

Un ritratto di Beatrice Cenci, attribuito a Guido Reni o a Elisabetta Sirani
Beatrice Cenci, giovanissima nobildonna romana, eroina popolare giustiziata per parricidio, in un ritratto attribuito a Guido Reni o a Elisabetta Sirani. È probabilmente alla sua decapitazione, avvenuta nel 1599, alla quale aveva assistito, che Caravaggio si ispirò per il suo Giuditta e Oloferne

Artemisia: la donna che ha dato nuova luce al Barocco

Luci, colori, drappeggi concorrono poi a fare della grande tela uno dei tanti capolavori di Michelangelo Merisi, capace di oscurare completamente gli altri sei quadri posti accanto: una scelta che rasenta il bullismo, se ci si permette di parlar fuori dai denti, malgrado il pregevole valore dei vari Trophime Bigot, Valentin de Boulogne, Louis Finson, Bartolomeo Mendozzi, Giuseppe Vermiglio e Filippo Vitali. Non a tutti è concesso essere il Caravaggio, d’altronde. Se non che, a una sala di distanza, due grandi tele di Artemisia Gentileschi arrivano a far da contraltare, dimostrando come a prendere una strada propria difficilmente si sbaglia.
A lungo all’ombra del padre Orazio prima (di cui in mostra sono presenti Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, conservato a Oslo, e Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne conservato ad Hartford, alla cui realizzazione Artemisia deve aver collaborato), schiacciata poi dal personaggio che intorno allo stupro subito la letteratura ha creato per lei, l’arte della pittrice è assurta da poco a rappresentare uno dei più fulgidi esempi del Barocco.
Come per Orazio Gentileschi, anche per lei sono due le varianti del tema biblico esposte: Giuditta decapita Oloferne, in prestito dal Museo di Capodimonte, di cui è uno dei dipinti più osannati, dove la donna, aiutata dalla sua stavolta giovane fantesca, taglia risoluta la testa al condottiero assiro. Se Caravaggio aveva attirato l’attenzione sull’urlo straziato della vittima, contrapposto alla bellezza intatta dell’eroina, Artemisia si concentra invece sulla violenza e sullo sforzo fisico delle due donne, che aiutandosi l’un l’altra, riescono ad aver ragione del tiranno.

 Giuditta e le altre

Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, arrivato dalle Gallerie degli Uffizi, mostra invece le due a omicidio compiuto; durante la fuga vengono trattenute da qualcosa che non è dato sapere a noi che guardiamo il dipinto, affascinati come siamo non solo dall’esitazione che si coglie dall’espressione dell’assassina, ma anche dalla luce che riscalda le vesti e scivola sull’elsa della spada.
Tra le 31 opere in mostra, strega poi il volto bianchissimo della Giuditta di Mattia Preti: il suo Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca datato prima del 1659 (e custodito al Museo di Capodimonte) mostra come nel tardo barocco la lezione di Caravaggio è già più flebile, preferendo di nuovo i pittori raccontare il delitto come avvenuto.
In primo piano il corpo esanime del nemico sconfitto, ancora grondante di sangue, che giace tra lenzuola fra le cui pieghe si riflette la luce; in secondo piano, Giuditta con la testa di Oloferne appena mozzata; la sua pelle è illuminata da una luce che scende dall’alto, mentre nella penombra, la serva resta testimone della scena.

La sfida di un’eroina senza tempo

A chiudere, una quarta sezione dedicata al rapporto tra il racconto di Giuditta e quello di David, entrambi capaci di sconfiggere un nemico più forte di loro, e di Salomé, con cui condivide fascino e seduzione.
Per completare il viaggio, non si può che consigliare di fare qualche passo in più, verso Palazzo Braschi, al Museo di Roma (Klimt. La Secessione e l’Italia è visitabile fino al 27 marzo 2022), per ammirare Giuditta I, la femme fatale crudele e sensuale dipinta da Klimt, che sfida con il suo sguardo lascivo chi la osserva, a rappresentare il desiderio d’indipendenza delle donne d’inizio Novecento, nonché lo struggimento e la paura che turbano l’immaginario erotico maschile del tempo.
Per lei, come per le sue raffigurazioni precedenti, valgono i versi di Giovan Battista Marino che la curatrice ha voluto apporre a inizio mostra «(…) Così da doppio assedio in libertade,/ Posi la patria oppressa, e l’honestade». Per il 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, quando è stata inaugurata Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento (aperta fino al 27 marzo 2022) non poteva esserci esergo migliore.

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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