Il rientro a Roma della carovana "Stop the war now" dopo 20 ore di viaggio da Leopoli (Foto: Monica Di Sisto)

La Carovana della pace e i volti della guerra. In dialogo con Monica Di Sisto

Un viaggio di quattro giorni, fra il 31 marzo e il 4 aprile, per portare a Leopoli il messaggio “stopthewar”, 32 tonnellate di aiuti e solidarietà. La giornalista e vicepresidente di Fairwatch racconta l’azione nonviolenta promossa da una rete di associazioni, per leggere sul campo cosa c’è dietro un’escalation che i civili non riescono a capire

«Degli sfollati che abbiamo soccorso, molti provengono da Mariupol e dal Donbass, zone in cui la vita è particolarmente a rischio. Li abbiamo presi al seminario di Leopoli, tra le sette e le nove di mattina. Arrivavano come una valanga. Tutti traumatizzati e terrorizzati: bambini, padre e figli cechi, gattini, cani. Giunti lì con mezzi di fortuna, dopo oltre trenta ore di viaggio». Monica Di Sisto, giornalista esperta di questioni economiche, attivista e vicepresidente di Fairwatch, è stata a Leopoli con la Carovana “Stop the war – Facciamo la pace” partita da Roma lo scorso 31 marzo.

«Il primo flusso di persone è partito con i primi quaranta mezzi, dopo essere arrivati alla stazione di Leopoli da Mariupol.  Noi abbiamo aspettato il secondo flusso di persone – racconta – Siamo riusciti a fare la marcia della pace in una città dilaniata in cui però si continua a vivere regolarmente, nonostante il suono delle sirene»

 

Monica Di Sisto
Monica Di Sisto, giornalista, attivista e advocacy senior consultant nei temi del commercio globale e dell’economia internazionale

 

Un’azione diretta nonviolenta per comprendere cosa si nasconde dietro la guerra in Ucraina, lontano dalle narrazioni dominanti, vicino ai tanti civili, vittime di un’escalation militare che non riescono a capire. Voluta e organizzata da una rete molto ampia che comprende organizzazioni cristiane come la Focsiv, la Comunità Papa Giovanni XXIII e Pax Christi, la Pro civitate christiana di Assisi, i Comboniani, il Cipax, i Focolari e i Beati i costruttori di pace. Insieme a loro anche la Cgil e i coordinamenti laici come l’Associazione delle Ong italiane con Arcs, Arci, Un ponte per, Fairwatch, il Cospe di Firenze, Libera e il Gruppo Abele, gli ambientalisti di Extinction Rebellion e Legambiente. E ancora, le realtà dell’accoglienza come Mediterranea, Arci Solidarietà, Mare aperto e tanti altri.

Monica Di Sisto, come è nata l’iniziativa “Stop the war – facciamo la pace”?
Abbiamo risposto all’appello delle associazioni ucraine che hanno bisogno di farmaci, dispositivi di protezione, materiale anti-covid. Nella prima fase di esodo dall’Ucraina, nelle zone più colpite dalla guerra, si sono spostati nuclei familiari e persone in grado di muoversi da sole. Nelle parrocchie, negli istituti di accoglienza ci sono però uomini e donne che hanno maggiori problemi: persone sole, anziani, mamme con bambini i cui mariti sono al fronte o già morti, disabili. Abbiamo così pensato di partire insieme a chi aveva competenze tecniche e a chi aveva esperienze in aree di crisi: cooperanti, assistenti, volontari esperti. A disposizione avevamo mezzi piccoli per spostarci più facilmente e per fare una accoglienza essenzialmente di tipo famigliare. Ci siamo organizzati in meno di quindici giorni. Siamo partiti da Roma il 31 marzo, con un pulmino e un camper, e siamo rientrati il 4 aprile. Avremmo dovuto portare a casa una ventina di ucraini per lo più disabili.

Chi avete trovato una volta giunti sul posto?
Lì c’è la Piattaforma delle Associazioni Educative, l’aggregazione più grande che c’è in Ucraina. Associazioni cattoliche e ortodosse (pochissime sono laiche) che si occupano di scuola, doposcuola, educazione nelle aree rurali. La maggior parte sono costituite da giovani e giovanissimi con una formazione di tipo religioso. Ci sono piccole associazioni che non hanno la forza di organizzarsi, alcune sono nella Rete Zero Waste: si occupano del riciclaggio dei rifiuti nella parte della stazione dove arrivano i rifugiati. E ci piacerebbe sostenerle. Questo è quello che ci aspettavamo e che abbiamo trovato.

Abbiamo scaricato circa 32 tonnellate di aiuti che sono stati distribuiti in due soli giorni. Si fa sentire il peso dell’embargo russo. La Russia era il loro grande fornitore.

Quali sono state le principali difficoltà?
Durante il viaggio sono arrivate nuove richieste di disponibilità per l’accoglienza, perché ci sono civili bloccati in molti istituti che non sono stati accolti dalle organizzazioni internazionali e dalla Croce Rossa, già impegnate su altri fronti, dove ci sono feriti. Da una previsione di 200 persone da portare in Italia siamo giunti a 350. Abbiamo dovuto pagare navette e pullman partiti dalla Polonia: li abbiamo poi scortati fino al raggiungimento dell’Italia. Purtroppo le organizzazioni umanitari locali sono molto piccole e non riescono a gestire facilmente il flusso crescente di sfollati che provengono ormai da tutta l’Ucraina.

 

 

I media italiani parlano spesso di “resistenza del popolo ucraino”, come negli anni Quaranta del secolo scorso. In Ucraina si percepisce lo stesso clima patriottico?
È una cultura molto diversa. Una cultura di destra che non va confusa con quella della Resistenza. C’è un nazionalismo forte che si percepisce già dalla frontiera. Si avverte la diffidenza nei confronti di chi non rientra nei canoni estetici occidentali. Non è un caso che i cosiddetti profughi di serie B non siamo riusciti a prenderli (alcuni sono rimasti bloccati in Polonia). Se scappi, poi,  rischi di essere considerato un disertore che non partecipa alla “resistenza” e che non aiuta quindi la nazione. Noi non veniamo visti di buon occhio, perché aiutiamo chi non vuole partecipare alla guerra. Sempre alla frontiere ci hanno chiaramente detto che dovremmo aiutare soltanto chi è realmente in difficoltà. È una guerra di popolo, la gente è solidale con i soldati. E nei check point è facile trovare persone con le maniche rimboccate e con le svastiche tatuate sugli avambracci. Dalle finestre sventolano le bandiere dell’estrema destra. Gli stessi check point sono gestiti dall’estrema destra.

Persone pacifiste e nonviolente che avevano per una leggerezza esibito una piccola bandiera con un fucile spezzato sono state bloccate tre ore al check point. I loro passaporti sono stati sequestrati e hanno rischiato l’arresto. È stato necessario l’intervento della diplomazia.

Non tutti gli ucraini vogliono le armi…
Tra le persone che abbiamo riportato a casa ci sono molti anziani. Ci hanno detto che l’Ucraina è cambiata. Non capiscono cosa sia successo. Loro si considerano fratelli dei russi. E non vogliono armi ma più diplomazia, mediazione. Quindi è vero che tanti voglio difendere il Paese aggredito dalla Russia, ma vorrei evidenziare che la popolazione ucraina è divisa sulle soluzioni da adottare per far cessare le guerra.

 

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Trent’anni fa la Carovana della Pace raggiunse Sarajevo per chiedere la fine della guerra, attraverso azioni nonviolente, e lanciare un segnale all’Onu. Leopoli è la nuova Sarajevo? Stiamo assistendo alla stessa indifferenza da parte di Stati e governi mondiali?
Sarajevo era assediata. È stata dimenticata per molto tempo, le forze internazionali non sono intervenute subito. In Ucraina le forze internazionali sono intervenute. Ma il Paese è stato utilizzato per una operazione geopolitica più ampia.

 

una donna ucraina cammina vicino ai carri armati
In Ucraina la guerra prosegue ormai da un mese e mezzo (Foto: Flickr)

 

È una guerra per procura?
Sì. Mario Giro, che è stato Sottosegretario di Stato al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, durante l’evento “La lezione del 2020”, ci ha spiegato che inevitabilmente bisogna dialogare con la Russia, solo in questo modo si può giungere alla pace. La pace si fa con il nemico. Eppure è una dichiarazione che viene tacciata di filo-putinismo.

Il governo italiano ha scelto invece di mandare armi…
Per il 60% degli italiani  occorre un dialogo, perché la scelta di inviare armi non è affatto la soluzione per giungere a un cessate il fuoco. Purtroppo il nostro è un governo blindato: c’è un sistemo politico maggioritario con le liste bloccate. I cittadini non possono scegliere davvero i loro rappresentanti. Con delle conseguenze per l’intero sistema democratico. A queste criticità si aggiungono le recenti e infelici dichiarazioni del premier Mario Draghi, del tipo «volete la pace o il condizionatore». Che confermano l’evidente distacco della classe politica dalla popolazione.

 

 

La guerra si sta combattendo anche attraverso le sanzioni. Evocando la violazione dei diritti umani. Provando a “mettere all’angolo” la Federazione Russa. Ma che effetti potrebbero esserci sull’Italia e sui Paesi poveri?
Si sta cercando di fare appello ai diritti umani per espellere la Russia dalle organizzazioni economiche mondiali, ma il World trade organization risponde solo alle regole commerciali, che non sono state violate.

È bene ricordare che la Banca mondiale e il Fondo monetario nascono con la fine della Seconda guerra mondiale. Istituzioni volute dal Nord del mondo, in particolare dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, con obiettivi diversi da quelli dell’Onu.

Così come l’organizzazione mondiale del commercio, che viene istituita molto tempo dopo, nel 1995, da una idea di Bill Clinton per lanciare l’Europa verso quel mercato e di fare la pace oltre la cortina. Promuovendo la riduzione progressiva delle barriere commerciali in nome di un mondo unito, in cui però prevale la sola logica dell’interdipendenza vincolata da catene di produzione sempre più lunghe, con una divisione del lavoro sempre più complementare.

 

 

La Russia e la Cina non entrano subito nel Wto ma nel secondo millennio: rispettivamente nel 2001 e nel 2012. Potenze che intanto crescono, e con il rafforzamento del mercato cinese, che ha accumulato valore in un mercato di 1.400.000 persone, l’equilibrio fra gli Stati mondiali viene messo in discussione. Un duro colpo per gli Usa e il Regno Unito. Questo ci aiuta a capire che l’idea di mettere all’angolo la Russia e di marginalizzare il mercato cinese c’è da diverso tempo. Da quando si voleva far saltare il meccanismo che prevede le decisioni basate sul consenso.

Perché la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo – anche la Russia secondo gli indicatori è in via di sviluppo –  non solo africani ma anche India e Brasile, traditi dalla conferenza di Doha, per reggere l’impoverimento della classe media hanno sempre di più guardato di buon occhio la parte orientale del mondo. Gli investimenti cinesi in Africa sono aumentati. Il dialogo tra Cina e Russia è stato sempre più forte.

E anche l’Europa ha voluto rafforzare i legami commerciali con Putin: un vecchio zar di cui si potevano scoprire subito i difetti e che poteva essere comodo per gli affari. L’Italia ha fatto la parte del falco, avendo strettissimi rapporti di import ed export. Inoltre sappiamo che le sanzioni inflitte alla Russia già in passato hanno avuto delle conseguenze sulla nostra economia, soprattutto nel settore agroalimentare.

Siamo di fronte alle contraddizioni della globalizzazione economica?
Sì, la mancanza di democrazia nel commercio mondiale, che i movimenti no-global avevano già individuato da tempo, è venuta a galla: il Wto è un’organizzazione che favorisce filiere molto lunghe, fragili, innaturali, impattanti. E incontrollabili. Inoltre sono filiere che si basano su modelli economici estrattivi che in questa fase storica non funzionano più. Lo ha detto anche l’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) che occorre riformare le istituzioni di Bretton Woods (vedi qui il comunicato stampa conclusivo, ndr). Aggiungo che, sempre secondo l’Uctad, in questa fase bellica avremo una perdita di Pil a livello internazionale del 3 per cento. Di cui l’1 per cento riguarda gli impatti della guerra (nonostante la vendita delle armi), gli altri punti percentuali riguardano problemi presenti prima del Covid.

 

 

La guerra nel cuore dell’Europa si aggiunge alla crisi post-pandemica e a quella climatica. C’è una relazione fra queste urgenze?
Già nel 2001, nei social forum di Genova si parlava di come l’assottigliamento delle materie prime e l’instabilità climatica avrebbero creato delle tensioni geopoltiche. Tensioni che sarebbero cresciute con la crescita economica della Cina (e di certo non per il belllicismo dei cinesi). Occorrono allora delle istituzioni globali forti e democratiche. La stessa Europa bellicista deve fare dei passi avanti in direzione di una maggiore democrazia. Alle crisi energetiche, come quelle che stiamo vivendo, la risposta europea è addirittura di stampo pre-thatcheriano: carbonifera, intensiva, inquinante e, appunto, armata.

Non si prende seriamente in considerazione lo sviluppo sostenibile. Neanche in Italia, dove potremmo proporre il modello “un tetto un pannello” per dimostrare che si vuole cambiare la strategia energetica. Il governo italiano avrebbe potuto assegnare un terzo del Pnrr alle fonti rinnovabili, senza più affidarci al gas e a dittatori.

Come possiamo superare queste crisi?
Usciamo da queste crisi soltanto se le affrontiamo tenendo conto della complessità e non cercando delle semplificazioni. Dovremmo come società civile provare a costruire una visione basata non più sul profitto ma sulla cura, e quindi più relazione, cooperazione, partecipazione, mutualismo. Maggiore protezione dell’ambiente e degli ecosistemi. Un paradigma che mette la finanza al servizio dei diritti e della vita. La pandemia avrebbe dovuto far prevalere questi aspetti, in realtà la crisi sanitaria non è stata affrontata. Il governo è riuscito soltanto a rafforzare le posizioni delle multinazionali dei farmaci. Eppure la Francia ha stanziato un miliardo di euro per l’economia sociale e solidale per ricucire i territori. Investimenti per le cooperative, sviluppo rurale, imprese di comunità. La Germania ha investito molto sulla cultura, sui giovani, sui servizi sociali e sul rafforzamento dei servizi sanitari locali, con l’idea di avere un servizio sanitario diffuso.

La Spagna ha puntato sull’imprenditoria di comunità e la formazione. Invece nei piani di ripresa italiani non c’è niente di tutto questo.

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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