La centrale nucleare di Chernobyl

L'ex centrale nucleare di Chernobyl, dopo la dissoluzione dell'Urss, era passata sotto il controllo dell'Ucraina. Ieri l'esercito russo ne ha ripreso il possesso (Foto di Денис Резник da Pixabay)

I russi a Chernobyl, sul luogo dei propri fantasmi

Le truppe di Mosca hanno preso nelle scorse ore il controllo della centrale distrutta dopo l’incidente del 1986. Una responsabilità enorme, che rivela gli ulteriori fattori di rischio del modello nucleare. Mentre l’Aiea avverte:  «Qualsiasi attacco armato contro impianti nucleari destinati a scopi pacifici costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite»

Semmai qualcuno se ne fosse dimenticato, nonostante negli ultimi tempi fosse diventato meta di gite turistiche e certi reportage lo dipingessero come un luogo di fiaba, quello di Chernobyl è ancora oggi un impianto ad alto rischio. Conserva infatti 216 tonnellate di materiale radioattivo che deriva dalla fusione del nocciolo avvenuta durante una notte di 36 anni fa. A questa massa informe, nota anche come “piede d’elefante”, si aggiungono 16 tonnellate di uranio e plutonio più 30 di polveri, ovviamente contaminate anch’esse. Mettere le mani su questo relitto, come ha fatto l’esercito russo nel pomeriggio di ieri, implica conseguenze non da poco, come spiegava all’AdnKronos poche ora fa Angelo Gentili, responsabile del Progetto Cernobyl di Legambiente, che ha portato per anni aiuto alle famiglie ospitando temporaneamente in Italia migliaia di bambini provenienti dalle zone contaminate:

 

Angelo Gentili, responsabile del Progetto Chernobyl di Legambiente, durante una missione al CentroSperanza, di Vilejka,, in Bielorussia, nel 2019 (Fonte: www.legambientesolidarieta.it)

 

«Quello è un obiettivo molto sensibile, fino ad oggi in qualche modo tutelato dallo Stato ucraino, che continua a rappresentare una bomba a orologeria. Farne un teatro di guerra è molto pericoloso, non si può scherzare con il nucleare. Siamo molto preoccupati, vorrei sperare che non ci sia un accanimento in quell’area».

Parole che suonano come un monito enorme, a conferma di quanto riferivano ieri le istituzioni ucraine: «Il nostro controllo sul sito di Chernobyl è andato perso. Le condizioni dell’ex centrale nucleare di Chernobyl, degli impianti di confinamento e di stoccaggio delle scorie nucleari sono sconosciute».

Ma cosa significa per la Russia, al di là delle necessità strategiche legate all’avanzata da nord verso Kiev, tornare sul luogo della catastrofe?

Significa ricominciare da quella che molti interpretarono come l’inizio della fine del sistema sovietico, forse riaprire una pagina rimossa della propria storia. Perché con l’incidente al reattore numero 4 della centrale elettrica, causato da un misto d’imperizia umana e fragilità progettuale, si produsse una profonda crepa nella credibilità del paese e il contraccolpo internazionale sull’immagine dell’Urss, che aveva peraltro già perso la corsa contro gli Stati Uniti verso la Luna, fu senza precedenti.

 

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Eravamo nel 1986, i processi sociali in corso all’interno del patto di Varsavia avrebbero fatto il resto. Ma mentre nel 1979 agli americani andò bene, con la fusione del nocciolo di Three Mile Island arrestata un istante prima del collasso (è la storia che racconta il film “Sindrome cinese”), per i russi fu la catastrofe: il regime sovietico cercò di oscurare per qualche ora la notizia ma la nube radioattiva si sparse nei cieli dell’Europa settentrionale, poi attraversò le Alpi, segnando un prima e un dopo nel dibattito sulle fonti energetiche e sulla percezione del paese che portava quella responsabilità.

 

Guarda il video che racconta il montaggio del secondo sarcofago intorno alla centrale di Chernobyl

 

Nel frattempo il piccolo centro di Pryp”jat’ che ospita l’impianto, di cui la miniserie di Sky ripercorreva con grande efficacia un paio d’anni fa la storia, è diventata una città fantasma: «Superato il confine – sono sempre le parole di Angelo Gentili – c’è la cosiddetta “zona morta” che sta intorno alla centrale, lì non ci sono persone che ci abitano e c’è una cintura di sicurezza protetta dalle autorità, ma in presenza di una guerra il rischio è che tutta una serie di parametri sanitari saltino. Questa situazione va tenuta presente anche dal punto di vista internazionale». E con quei fantasmi oggi il paese che tenta la riconquista delle terre perdute, torna a fare i conti: sul luogo di una tragica beffa, di una dignità perduta che oggi cerca di ripristinare con la forza.

 

 

Le preoccupazioni che derivano da questa scellerata degenerazione però vanno ben oltre il cimitero silente della centrale ucraina, dove il braciere è ancora acceso e lo staff di gestione, da quanto riferiscono le agenzie, è sotto sequestro. Il paese è costellato di centrali atomiche intorno alle quali si guerreggia: «Non importa la genesi, la causa o chi ha iniziato cosa, la realtà è che ci sono 15 reattori nucleari operativi in Ucraina – ha detto Linda Pentz Gunter, fondatrice dell’associazione americana Beyond Nuclear – Se i reattori si trovano nel mezzo di un conflitto o di una guerra, non possono essere semplicemente abbandonati. Questo ci impone di evitare con urgenza questa possibilità».

 

 

Allargando lo sguardo il problema diventa ancora più inquietante, nella sventurata ipotesi di un conflitto su larga scala:

«Qualsiasi attacco armato e minaccia contro impianti nucleari destinati a scopi pacifici costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e dello Statuto dell’Agenzia» si legge in un comunicato sibillino che proprio ieri ha pubblicato l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea).

A conferma che quella tecnologia, basata sul controllo umano di processi potenzialmente irreversibili, oltre che un fattore di dipendenza non meno pesante di quello dalle fonti fossili, rappresenta un tallone d’Achille per la sopravvivenza della comunità umana, l’ennesimo fardello dei modelli novecenteschi che lasciamo in eredità alle nuove generazioni.

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Marco Fratoddi
Marco Fratoddi
Marco Fratoddi, giornalista professionista e formatore, è direttore responsabile di Sapereambiente, insegna Scrittura giornalistica al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Cassino con un corso sulla semiotica della notizia ambientale e le applicazioni giornalistiche dei nuovi media dal quale è nato il magazine studentesco Cassinogreen. Partecipa come direttore artistico all'organizzazione del Festival della virtù civica di Casale Monferrato (Al). Ha diretto dal 2005 al 2016 “La Nuova Ecologia”, il mensile di Legambiente, dove si è occupato a lungo di educazione ambientale e associazionismo di bambini, è stato fino al 2021 caporedattore del magazine Agricolturabio.info e fino al 2019 Direttore editoriale dell’Istituto per l’ambiente e l’educazione Scholé futuro-Weec network di Torino. Ha contribuito a fondare la “Federazione italiana media ambientali” di cui è divenuto segretario generale nel 2014. Fa parte di “Stati generali dell’innovazione” dove segue in particolare le tematiche ambientali. Fra le sue pubblicazioni: Salto di medium. Dinamiche della comunicazione urbana nella tarda modernità (in “L’arte dello spettatore”, Franco Angeli, 2008), Bolletta zero (Editori riuniti, 2012), A-Ambiente (in Alfabeto Grillo, Mimesis, 2014).

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