Un'immagine della frana che ha devastato Casamicciola, Ischia

La frana che ha devastato la zona di Casamicciola alta, a Ischia, si è staccata dal monte Epomeo, e ha trascinato con sé tutto ciò che ha incontrato sul suo percorso (Foto: YT)

Ischia, occorre uno sguardo nuovo

La terribile frana che ha devastato il territorio dell’Isola Verde ci impone una riflessione. Non solo sul dissesto idrogeologico e sulla fragilità dei territori, ma sulle dinamiche sociali e politiche delle comunità umane nella relazione con i luoghi dove vivono

Poco più di ventiquattr’ore dopo la terribile frana che ha cancellato case, strade e vite umane, il sole ha ricominciato a splendere sull’isola d’Ischia, mostrandola in tutta la sua accecante bellezza. Ma viene da piangere se si pensa a quanta fragilità c’è in quella bellezza, e quanto dolore può costare sottovalutarne i rischi. Nel frattempo a Casamicciola arrivavano nuovi aiuti per i soccorritori stremati, che per più di ventiquattr’ore, senza interruzione avevano scavato nel fango, talvolta anche a mani nude, muovendosi con delicatezza e rispetto, salvando un anziano signore, rimasto aggrappato a una finestra, che ora lotta fra la vita e la morte in un ospedale napoletano, e altri tre feriti meno gravi. I morti accertati mentre scrivo sono sette, fra cui diversi bambini, uno di soli ventun giorni. Ci sono ancora dispersi, e ogni ora che passa allontana la speranza di trovarli fra i vivi. Ma il bilancio sarebbe più grave se non si fosse stati tempestivi nel soccorso alle molte famiglie rimaste intrappolate in casa, ora raccolte presso due centri e assistite dai volontari delle tante associazioni isolane.

 

 

 

E naturalmente si prova a riflettere, a commentare, e si sentono ripetere fino alla noia parole d’ordine e frasi fatte. Da ambientalisti sappiamo benissimo che c’entra la fragilità geologica, la natura sismica della zona, la non regimazione delle acque, l’incuria, la mancanza di una seria pianificazione territoriale, l’abusivismo edilizio. Ma forse bisognerebbe fare uno sforzo per smettere di attribuire colpe, e provare a cercare delle soluzioni che contemplino non soltanto i risarcimenti dello stato di emergenza o le promesse sempre disattese di politici e amministratori. E sì, è vero, non bisognava costruire in quei luoghi, soprattutto abusivamente, in barba a tutte le regole non solo della legge ma anche del buonsenso. E non bisognava tornarci dopo il terremoto del 1883, il sisma del 1980 e dopo quello del 2017, o dopo le numerose alluvioni che ciclicamente hanno devastato la zona, inclusa quella del 2009 dove morì una ragazza. Ma perché, è questa la vera domanda da porsi, la gente continua a tornare, a ricostruire, a riabitare?

Perché in qualche caso famiglie con bambini sono rientrate abusivamente in case rese inagibili dal sisma del 2017, violando il divieto, sistemandole alla men peggio, talvolta servendosi di un generatore di corrente per l’impossibilità di allacciarsi alla rete elettrica? 

Innanzi tutto, sgombriamo il campo da un equivoco: Casamicciola alta non è abitata da Paperoni dell’imprenditoria turistica sempre pronti a speculare. La maggior parte delle case di quella zona è stata autocostruita da famiglie di medio/basso reddito, che avevano quell’unica possibilità di avere un tetto. Alcune case avevano più di cento anni, ristrutturate alla meglio. Fra i feriti e i morti ci sono idraulici, commesse, casalinghe, badanti.

 

Le immagini della frana di Casamicciola 

 

Inoltre le frazioni, i piccoli e piccolissimi centri come La Rita, Perrone, Maio, ospitano comunità umane molto coese, con un forte senso di identità, che si è ulteriormente rafforzato affrontando le calamità naturali nel corso degli anni. Perché fin dal 1883 è stato chiaro che l’aiuto dello Stato non sarebbe arrivato, o sarebbe arrivato tardi e in maniera insufficiente. Così ci si è auto-organizzati, nel solo modo che sembrava possibile: tornare, seppellire i morti, ricostruire e ricominciare a vivere in attesa della prossima calamità. Nel corso degli anni, ha fatto il resto la combinazione esplosiva fra la mancanza di pianificazione territoriale e i condoni periodici (in tutto, 28.000 richieste di sanatoria presentate, l’ultimo nel 2018, Governo Conte) che puntualmente sancivano l’impossibilità di far rispettare le leggi. Le domande di condono restavano poi in sospeso anche per decenni, e nel frattempo la gente abitava in case pericolose, che avrebbero dovuto essere abbattute prima ancora di completarne l’edificazione.  

 

 

Dopo l’alluvione del 2009 non si sono fatti interventi strutturali di regimazione delle acque, non si è verificata la stabilità dei pendii, e solo di rado si sono liberate le vie d’acqua ostruite. Dopo il terremoto del 2017 l’unico aiuto è stato un contributo che, almeno per alcuni anni, ha permesso agli sfollati di pagare l’affitto in un’altra zona dell’isola. Oggi però non ci si può più permettere di rinviare o cercare scorciatoie. I mutamenti climatici hanno reso assai più intensi e frequenti i fenomeni meteorologici estremi. Prima ancora dei dati statistici (126 mm di pioggia caduti in 6 ore, dato mai raggiunto negli ultimi vent’anni) è bastata la violenza e la durata senza precedenti del temporale a far comprendere anche a chi, come me, si trovava nella zona più sicura dell’isola, che stava avvenendo qualcosa che non aveva precedenti.

 

 

Che cosa si può fare? Legambiente propone tre interventi legislativi. Innanzi tutto sbloccare il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, che come ricorda Stefano Ciafani, presidente dell’associazione, «fu approvato in bozza dal governo Gentiloni nel 2018 e da allora giace in un cassetto». È anche ora che il Parlamento approvi la legge sul consumo di suolo, «ferma da due legislature e fondamentale soprattutto dove si è costruito in difformità rispetto alle norme e in violazione di vincoli paesaggistici e idrogeologici». Infine «lo Stato si deve finalmente accollare l’onere e la responsabilità di affrontare la pianificazione delle delocalizzazioni di edifici residenziali o produttivi verso luoghi meno pericolosi: dobbiamo metterci in testa che non si può ricostruire ciò che era stato edificato su terreni a rischio senza condannare altre vite».

 

 

Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente

 

Delocalizzare sarà dunque necessario. Ma non può essere un’operazione calata dall’alto. Non si possono prendere persone la cui unica ricchezza è il loro senso di comunità e “deportarle”, magari sparpagliandole qua e là per l’isola o addirittura sul continente. Andrebbero coinvolti nelle scelte, fatti sentire per una volta non sudditi ma cittadini, protagonisti della propria esistenza.

Andrebbe offerta loro la possibilità di ricreare altrove, non troppo lontano, le loro reti di relazioni. A chi può restare, perché abita nella zona a più basso rischio, andrebbe offerta la possibilità di intervenire in prima persona nella messa in sicurezza del territorio.

Non occorrono competenze specialistiche per ripulire un canalone da detriti e rifiuti, favorendo così il deflusso delle acque piovane, o per rimettere in sesto i muretti a secco, piantare alberi, avvistare gli incendi boschivi (altro importante fattore di rischio: le aree bruciate sono quelle più soggette a frane). Il monitoraggio delle zone a rischio potrebbe essere effettuato da gruppi di volontari, magari aiutandosi con una semplice app da scaricare sui cellulari. 

 

 

Una veduta da Casamicciola alta
Uno scorcio della parte alta di Casamicciola, prima della tragedia di sabato 26 novembre (Foto: Isoladischia.net)

 

Si parla da anni di trasformare la zona alta di Casamicciola in un parco naturalistico-termale, o addirittura di trasformare tutta la zona dell’Epomeo in un’area protetta. Sarebbe bellissimo, ma solo se a creare e gestire il parco fossero quelli che finora ci hanno abitato, e che potrebbero così conservare un legame con i luoghi che hanno tanto amato. Lo Stato finora è stato assente o latitante, e le amministrazioni locali hanno oscillato pericolosamente fra impotenza e connivenza. I cittadini si sono adeguati, lasciandosi spesso scivolare nella rassegnazione o addirittura nell’illegalità. Ora l’isola fragile sta dando la sveglia a tutti. Non c’è più tempo da perdere, ma se ci si muove tutti insieme, tutto può ancora cambiare. La bellezza di Ischia e della sua gente lo merita.

 

 

 

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Lilly Cacace
Educatrice ambientale di esperienza venticinquennale, coordina il gruppo Scuola di Legambiente Ischia. Per l’Amp Regno di Nettuno, dal 2016, progetta e coordina “Nettuno va a scuola”, progetto educativo gestito in collaborazione con Legambiente Ischia e con le Scuole delle isole di Ischia e Procida. Autrice di "Alberi: Storie di amicizia tra persone e piante" (Albatros Edizioni Equosolidali, 2005). Ha scritto per Ischia News, Kaire, La Nuova Ecologia, .eco. Dirige l’Associazione "Gli alberi e noi - Isola Verde", per la quale gestisce progetti educativi e di volontariato, fra cui “Un mese per gli Alberi”. Laureata in Filosofia, le sue ricerche riguardano il rapporto fra educazione, cura dell’ambiente e felicità individuale.

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