I Jenu Kuruba protestano fuori dal Parco Nazionale di Nagarhole, in India, da cui vengono sfrattati nel nome della conservazione

Survival International lotta da anni, insieme ad altre Ong, per evitare che il target del 30% si tramuti in un grande accaparramento di terra. Nella foto, i Jenu Kuruba protestano fuori dal Parco Nazionale di Nagarhole, in India, da cui vengono sfrattati nel nome della conservazione(Foto: © Survival/survival.it)

Cop15, raggiunto l’accordo sul 30%. Ma non a favore degli indigeni

Il Quadro Globale per la Biodiversità è stato finalmente adottato alla Cop15 a Montreal. Ma senza riconoscere ai popoli indigeni i loro diritti territoriali. Per Survival International e altre Ong si tratta di una grave minaccia alla loro stessa sopravvivenza. Oltre che alla biodiversità, di cui sono i migliori conoscitori

Alla Cop15 sulla biodiversità di Montreal, da poco conclusa, i paesi dell’Onu hanno raggiunto l’accordo sul 30% del territorio e dei mari protetti al 2030, di stanziare 30 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo nella tutela della natura, di risanare il 30% degli ecosistemi degradati e di dimezzare il rischio legato ai pesticidi. Ma per molti attivisti, Ong ed esperti, si tratta di un successo dal retrogusto amaro. Così lo definisce, tra gli altri, Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni. «Dopo un processo di negoziazione intenso e senza precedenti, che ha visto abbandoni e situazioni di stallo fino alla fine, il Quadro Globale per la Biodiversità (Global Biodiversity Framework, GBF) è stato finalmente adottato questa mattina alla COP15 a Montreal», si legge in una nota stampa diffusa dall’organizzazione. L’accordo, spiegano gli attivisti di Survival, avrebbe dovuto definire un importante piano d’azione per la “protezione della natura” fino al 2030. Tuttavia non è riuscito a compiere il passo coraggioso necessario per proteggere davvero la natura, ovvero riconoscere che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e che il modo migliore per proteggere la biodiversità è quello di proteggere i loro diritti territoriali.

 

 

Potere ai popoli indigeni. Quando?

Survival International, infatti, insieme a popoli indigeni e altre Ong, ha lottato instancabilmente per due anni per impedire che il target del 30% (il piano per trasformare il 30% del pianeta in Aree Protette entro il 2030, anche noto come 30×30) diventasse il più grande accaparramento di terra della storia. Ed è proprio a questo che si riferiscono i membri della Ong quando parlano di retrogusto amaro dell’accordo: il target sostenuto dalle forze più potenti del mondo, tra cui i governi del Nord globale e l’industria della conservazione. «Abbiamo giocato un ruolo importante nel farlo diventare la parte più controversa del Gbf, dimostrando che la “conservazione fortezza” – ovvero lo sfratto dei popoli indigeni e le violazioni dei diritti umani compiuti nel nome della protezione della natura – non potrà più essere tollerata come danno collaterale degli sforzi di protezione ambientale. E questa battaglia l’abbiamo vinta insieme alle organizzazioni indigene», spiegano quelli di Survival. Aggiungendo che, rispetto alla versione precedente siglata nel 2010, l’obiettivo del 30% adottato oggi non fa riferimento a una categoria di aree “rigidamente protette”, come inizialmente proposto, e cita il riconoscimento e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni.

 

 Guarda il video della Cop15 di Montreal 

Ambientalismo e mentalità coloniale

Si tratta di una netta differenza. «Purtroppo, però, anche se il linguaggio è ora un passo più avanti nella lotta per fermare gli abusi compiuti nel nome della conservazione, restiamo ancora molto lontani da un reale cambiamento di quel modello di conservazione che solo nel continente africano ha portato allo sfratto di almeno 14 milioni di persone». Infatti, in un potente intervento dell’ultimo minuto, l’International Indigenous Forum on Biodiversity (Iifb) ha chiesto che i territori indigeni rientrassero nel calcolo del raggiungimento del target del 30% ma la richiesta è stata respinta, principalmente dai paesi europei, nonostante numerose prove dimostrino che i popoli indigeni proteggono le loro terre meglio di chiunque altro e che i loro territori dovrebbero essere uno strumento cruciale nella protezione della biodiversità. L’ennesima conferma, sottolinea Survival International, che, nella conservazione, la mentalità coloniale secondo cui gli “ambientalisti occidentali” “sanno ciò che è meglio” è sempre viva e vegeta. «Quello che abbiamo visto accadere a Montreal dimostra che non possiamo fidarci che l’industria della conservazione, le aziende e i paesi potenti facciano la cosa giusta»,  dichiara Fiore Longo, direttrice della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione.

«Continueremo a lottare per il rispetto e il riconoscimento dei diritti territoriali indigeni. Chiunque abbia a cuore la biodiversità dovrebbe fare lo stesso. Continueremo a monitorare da vicino l’attuazione dell’accordo per garantire che l’industria della conservazione si attenga rigorosamente ai nuovi requisiti per il rispetto dei diritti dei popoli indigeni».

 

 

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