Il filosofo e pedagogista statunitense John Dewey (Foto: Wikipedia)

Quell’esperienza infantile che costruisce il futuro comune, l’attualità di John Dewey

Centrale nello sviluppo, per il pedagogista statunitense, è l’ambiente, fisico e culturale, con cui il bambino interagisce. E in cui può sperimentare cura condivisa, inventiva, cooperazione, o meno e, secondo il proprio apprendimento, co-creare la società di domani. Una riflessione a settant’anni dalla morte

«Attraverso l’educazione è possibile costruire o ricostruire l’idea della pace (e della guerra) come della salute, dell’economia, della città, della natura, della politica, della proprietà, della vita in generale. Ma la condizione fondamentale è che l’educazione avvenga principalmente attraverso l’esperienza e la vita stessa»

scrive Giuseppe Campagnoli sull’ultimo numero di “Territori Educativi”. Così attuale e così necessario interrogarsi oggi su come e quanto l’educazione possa sviluppare pensiero critico o schermato. Prendiamo questo invito per raccontare e ricordare, a settant’anni dalla sua morte avvenuta il 1° giugno 1952, poche settimane dopo quella della collega Maria Montessori, il filosofo e pedagogista statunitense John Dewey, che dell’esperienza ha fatto il cardine della sua visione del bambino e dell’educare, così come della scuola lo strumento essenziale per trasformare la società.

 

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Nacque il 20 ottobre 1859 a Burlington, un piccolo paese del Vermont. Dopo la laurea, si trasferì a Chicago dove, nel 1896, fondò con l’aiuto della moglie Alice Chipman la University of Chicago Elementary School. Fu qui che elaborò la tesi pedagogica dello Strumentalismo che diede vita alla “Scuola di Chicago”, fondata sull’idea che la mente è uno strumento adattivo nei confronti dell’ambiente, così come teorizzano il darwinismo e il pragmatismo dei suoi maestri Peirce e James.

Oltre all’insegnamento universitario (fu alla Columbia di New York fino al 1929) e ai numerosi testi teorici, Dewey è stato un personaggio importantissimo nella cultura e nel sistema politico americano della prima metà del secolo scorso.

 

Guarda un intervento di John Dewey del 1929

 

È intervenuto su delicate questioni sociali ed etiche, dal voto alle donne all’ingiusta condanna di Sacco e Vanzetti, dalla commissione d’inchiesta su Trotskij alla denuncia delle purghe staliniane o all’interventismo espresso nei due conflitti mondiali. Tale fu il suo coinvolgimento politico che a settant’anni, terminato l’insegnamento accademico, provò a dar vita, nel 1929, ad un terzo partito di tendenza progressista da affiancare ai due tradizionali partiti americani: un contributo parzialmente fallito che spinse però i democratici rooseveltiani ad inglobare nel loro programma parte delle sue idee.

Dobbiamo a Dewey molti dei cardini della pedagogia più recente, troppo spesso citati nelle riforme e nei piani didattici solo per fare bella figura, ostacolati dal mare delle carte, dalla rigidità del sistema e dalla formazione di tanti docenti.

E’ Dewey, per esempio, a parlare per primo in Democrazia e educazione, scritto nel 1916 (ma il principio l’aveva già enunciato vent’anni prima nel suo Il mio credo pedagogico), di quel learning by doing, l’imparare dal fare, che così tanto verrà promosso nei decenni a seguire. Nella scuola di Chicago, vero e proprio laboratorio di pedagogia sperimentale, si sovvertono i cardini della scuola tradizionale: le lezioni frontali e accademiche sono sostituite da attività e esperienze, dal cucinare al tessere o alla falegnameria. Scompaiono le classi, i banchi, le cattedre e arrivano tavoli per il lavoro collettivo, forni e attrezzi per dare vita ai processi di apprendimento dei bambini.

 

 

«Che beneficio c’è ad accumulare notizie di geografia e di storia, ad apprendere a leggere ed a scrivere, se con questo l’individuo perde il desiderio di applicare ciò che ha appreso e, soprattutto, se ha perduto la capacità di estrarre il significato delle esperienze future in cui via, via si imbatterà?».

Il principio di Dewey è lo stesso della scuola “attiva” di cui parlano Bovet e Ferrière e che trasformeranno il “fare scuola” del primo Novecento, ma lo studioso americano la chiama “progressiva”, in conformità alla sua “educazione progressiva”. Non è solo una distinzione terminologica. La scuola di Dewey non è solo “nuova” e attiva per il diretto coinvolgimento degli alunni nel fare sperimentale di quei fondamentali pionieri, ma fattore di cambiamento e progresso sociale.

Grazie all’esperienza e al metodo scientifico, la filosofia dell’educazione di Dewey mira a creare comunità in cui ogni singolo individuo porta il proprio originale contributo di creazione e ideazione e dove la cooperazione genera sviluppo collettivo in direzione dell’ideale democratico e del progresso sociale.

 

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«L’educazione non è una preparazione alla vita, è la vita stessa» afferma: non ci si illuda di cambiare la società attraverso le leggi se gli individui e la società non sono pronti a comprendere e ad accogliere i nuovi impulsi. E se è vero per Dewey l’intrinseca relazione tra il bambino e l’ambiente, è ancora a lui che dobbiamo guardare per capire le basi della outdoor education e di un nuovo rapporto con la natura, là dove ogni studente può imparare a diventare cittadino attivo e consapevole.

«Il posto della natura nell’uomo è non meno significante del posto dell’uomo nella natura. L’uomo nella natura è l’uomo soggetto alla natura; la natura nell’uomo, riconosciuta e usata, è intelligenza e arte».

Ogni esperienza nella natura e della natura è specifica e valoriale se non la si disperde, se diviene tesoro comune, se accompagna il bambino durante la crescita a sentire il bene-natura come ambiente dell’umanità intera, bene da salvaguardare e proteggere, con cui interagire in modo consapevole e sostenibile, ciascuno nei propri comportamenti e tutti nell’esperienza sociale che amplifica e porta a compimento. Pedagogia attiva, insomma, quella che determinerà gli scenari del domani: pace o guerra, sostenibilità o disastro ambientale, inclusione o razzismi, pensiero critico o asservito. Questa è la posta in gioco…

 

 

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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