L'artista bresciano Fabrizio Saiu durante una performance

L'artista Fabrizio Saiu durante una performance (Foto: Grazia Perilli, Facebook)

Corpo, suono, gesto. Dentro le performance di Fabrizio Saiu

Il poliedrico artista, sardo d’origine e bresciano d’adozione, è artefice di performance che travalicano il concetto di musica per come siamo abituati a pensarlo. “Azioni sonore” che sono “comportamenti ambientali”, le definisce. In questa intervista ci racconta in che modo suono e ambiente sono elementi imprescindibili

«C’era qualcosa che nei processi di costruzione musicale poteva liberarsi, ma solo a patto di utilizzare un grimaldello. Il mio era la gestualità, l’energia esplosiva del corpo in movimento. Il suono non era che un eco, un rimbalzo, una riflessione dell’azione. Il gesto era uno scontro col mondo, mentre il suono era la risposta sonora del mondo a questo. Il suono divenne per me un ambiente reagente».

 

Fabrizio Saiu
Fabrizio Saiu, sardo d’origine ma bresciano d’adozione, lavora nel campo della musica sperimentale e delle arti performative

 

Con queste parole il mover, performer e musicista Fabrizio Saiu, sardo d’origine ma bresciano d’adozione, spiega la sua ricerca artistica e il  rapporto che il soggetto creativo può avere all’interno degli spazi urbani. Un nuovo modo di concepire le sonorità che trae origine dalla musica contemporanea, sperimentale e improvvisata. L’ultima formazione con la quale ha lavorato è stata Ligatura in compagnia di Alessandro Giachero al pianoforte, Maurizio Rinaldi alla chitarra elettrica e live electronics e Andrea Lamacchia al contrabbasso. E da qui è nata la scoperta delle arti performative. «Io suonavo su diversi tamburi, lastre metalliche, campane, e su molti generi di ferraglia. L’ispirazione del quartetto era Il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Fu un’esperienza molto importante e molto formativa. Studiammo per due anni, molto intensamente e con grande disciplina e trovammo un nostro linguaggio. Le composizioni prendevano il nome di Territori – ed erano a tutti gli effetti delle mappe di comportamenti».

Il lungo lavoro di ricerca ha consentito a Fabrizio Saiu e al suo gruppo di concepire il suono come stratificazione, densità, relazione, quasi come in una partita a Risiko. Una fase della produzione artistica che coincide con la pubblicazione del disco Ligatura, per la Die Schachtel  ma anche con l’inizio di un nuovo percorso.

 

 

 

«Sospesi le mie collaborazioni – riprende – Stavo interessandomi sempre di più alla componente gestuale del movimento oltre che ai processi di produzione del suono. Il gesto per serviva a sfuggire alle strutture del linguaggio musicale. In qualche modo il mio era un confronto coi limiti del linguaggio dell’improvvisazione per come l’avevo appresa nei miei studi e nelle mie esperienze musicali. Dovevo quello che conoscevo al pianista Stefano Battaglia e al batterista Roberto Dani, ma anche a tanti musicisti-amici, l’amicizia è fondamentale nella musica come nella filosofia, che non cito perché l’elenco sarebbe lunghissimo».

 

     Guarda il video del progetto Ligatura 

 

Può aiutarci a capire quale idea c’è dietro la sua prima opera, Object sans corps?

In Objet Sans corps, opera audiovisiva realizzata assieme all’amico e straordinario artista Paolo Asaro, l’ambiente era costituito dal corpo di una industria siderurgica collocata nella periferia di Brescia. Passammo lì due interi giorni e filmammo molto ore di materiale da cui estraemmo una sequenza di 5 scene della durata complessiva di 14 minuti. La mia idea era quella di lavorare su singole azioni, atti primi, mai provati e incentrati sullo scontro tra me e l’ambiente, fosse esso un muro perimetrale della fabbrica o una strettissima cabina elettrica o gli interni di un ufficio. Fu una esperienza febbrile ed eccitante e segnò molto la mia vita. Smisi completamente di suonare e di dedicarmi alla musica. Davanti avevo una nuova vita, tutta da costruire e da ripensare.

 I suoi lavori sembrano concentrarsi su tre aspetti fondamentali: corpo, musica e ambiente. Qual è il filo rosso che li lega?

La domanda mi permette di entrare più nel dettaglio. Userei il termine suono più che quello di musica. La musica è un modo di organizzare il suono, ma dal Novecento abbiamo assistito a un rovesciamento del rapporto tra suono e musica, cosicché la seconda ha finito per essere una parte del primo. Il suono è un mondo che accade e la musica è uno dei modi in cui questo mondo accade e si articola. Già questo cambio di prospettiva mi portava a pensare il movimento del corpo in un certo spazio come un comportamento avente anche una natura sonora.

Pensare al suono come un ambiente che accade in una poliedricità di forme, significa anche considerare quell’ambiente dal punto di vista dei comportamenti che lo caratterizzano, siano essi di sola fruizione, siano essi intesi in senso produttivo, più o meno consapevolmente.

Voglio dire che i tre aspetti in realtà sono il medesimo, visto da prospettive differenti. Accadono assieme, si producono e rispondono l’un con l’altro. Avrei chiamato di lì a poco queste azioni-sonore comportamenti ambientali.

 

Guarda il video di Objet sans corps

 

Non mancano anche riferimenti alla metafisica, alla psicologia e alla catarsi. È così?

Forse sì, è vero. Penso alla catarsi. C’è qualcosa di catartico in Conversazioni alla fonte Regina, realizzata con una classe di studenti del liceo Galileo Galilei di Caselle di Selvazzano (Padova) in collaborazione con l’amico e polistrumentista Francesco Ganassin per LandArt Festival. In Conversazioni facevo uso dei richiami per uccelli come strumento di simulazione del verso degli uccelli presenti alla Fonte Regina. Gli ascoltatori, disposti al centro di una radura circondata dal bosco venivano gradualmente avvicinati dal suono dei richiami per uccelli che entravano in dialogo con il canto degli uccelli presenti nel bosco. Questa conversazione simulata a poco a poco veniva modulata trasformando il verso dei richiami in gesti sonori precedentemente annotati e studiati in fase di workshop (trilli, glissandi, soffi a differenti intensità).

La camminata, come strumento di spazializzazione del suono, prima nel bosco e poi organizzata intorno al pubblico secondo orbite circolari, unita al suono amplificato dei gesti sonori dei richiami generava una sorta di distorsione dell’ambiente acustico e una sua rimorfizzazione.

Dalla conversazione si passava alla lite e poi a un fusione di fasce sonore, quasi come in una composizione di Penderecki, per poi tornare al suono ambientale originario. Questo passaggio drammatico aveva un effetto catartico e risvegliava nell’ascoltatore il suono senso di coesione con un ambiente naturale e sonoro prima non udito nel medesimo modo. Forse in questo senso si può parlare anche di psicologia… come procedimento di riscoperta, laddove l’articolazione e il dialogo divengono strumenti di disvelamento del trauma, o procedimenti per ridare nome ai nostri fantasmi.

 

 

 

Quanto è importante la ricerca di nuove sonorità nelle sue performance, soprattutto per quelle collettive…

Vorrei dire moltissimo, ma ultimamente non credo che sia in questo senso che vanno letti i miei lavori. Non credo che questi siano caratterizzati dalla ricerca sonora, quanto piuttosto nel modo di stare dentro precisi comportamenti che sono al tempo stesso modi di produzione del suono e operazioni di relazione con l’ambiente naturale e urbano.

 

Guarda il video di Intermission 

 

E per queste ragioni fra le sue attività c’è anche quella di rivivere in modo creativo gli spazi urbani? Può aiutarci a capire in che modo?

Sì. L’ultima esperienza in questo senso è Intermission. Si tratta di un comportamento ambientale per tracciatori. Da qualche anno pratico attivamente nella mia città (Brescia) l’art du déplacement con il gruppo Parkour Bros. Una pratica estremamente interessante e decostruzionista per vocazione, capace di modificare i modi di attraversamento e di spostamento all’interno della città modulando la risposta del corpo agli ostacoli che incontra per produrre sempre nuovi percorsi e nuovi modi di abitare lo spazio urbano. Si tratta di una pratica individuale, poiché è sui propri limiti, psicologici e corporei, che il tracciatore misura la sua intenzione nel compiere un salto o la velocità di uno spostamento. Ma è anche collettiva in quanto è in gruppo che ci si muove e ci si allena. È una pratica ibrida poiché può contenere in sé l’atletica, l’acrobatica o il coreografico e si presenta aperta verso altre declinazione a seconda del repertorio linguistico del praticante. Manca una concezione del sonoro.

L’idea di attraversare la città, a partire da punti differenti, segnando delle linee di fuga sonore che “tagliano” e “uniscono” la città, mi sembra ancora un’immagine sonora entusiasmante.

Dopo la mia performance a Corato (BA) per il Linea Festival e quella a Novara per il NU festival, sto organizzando altre azioni in altre città italiane. Ogni città ha le sue forme e i sui propri flussi, ma anche i suoi propri modi di risuonare e di rispondere socialmente un intervento come questo. Intermission è realizzato in collaborazione con i gruppi di parkour locali appartenenti alle città di intervento. In questo modo incontro stili e approcci diversi al movimento che arricchiscono la pratica e la rendono un’esperienza singolare, specifica e unica nella sua forma. Abitare la città come strumento, questa è un’immagine per cui vale la pena spendersi.

 

La performance "Intermission" di Fabrizio Saiu nelle strade di Bari
Un momento di Intermission, al Linea Festival di Corato, Bari (Foto: Vito Lauciello, Facebook)

 

Ci sono performance artistiche alle quali è più legato e perché?

Direi che son tante. Mi interessano le performance sonore-discorsive di Alessandro Bosetti, i concerti in solo di Roberto Dani e le performance collettive di Elisabetta Consonni. Ne cito solo tre… Ognuna di queste apre un mondo sul rapporto tra musica e parola, tra movimento, suono e forma, e infine sulle relazioni all’interno di un gruppo e tra questo e l’urbanistica. Questi sono tutti sguardi che caratterizzano il mio lavoro. Direi tuttavia che maggiormente interessanti quelle performance che non sono performance, ma si presentano come performance, direbbe Schechner. Mi riferisco a tutte quelle attività che implicano una fase di training, una simulazione e anche un’evoluzione creatività e che sono svolte da chiunque intorno a noi.

Così le chiacchiere tra due amici o un poliziotto che ci fa cenno di accostare a bordo strada per un controllo, o l’urlo dei bambini all’uscita di scuola, o l’enunciazione di un nuovo decreto ministeriale, o ancora una lezione in accademia, e così via. Torna l’ambiente in cui viviamo, in fin dei conti.

 

 

Saperenetwork è...

Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

Sapereambiente

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