Da Gaza, giovani che praticano pace

Da Gaza, giovani che praticano pace

Uno sguardo nuovo sul “nemico”, la scelta della nonviolenza, l’urgenza di porre fine alle discriminazioni per realizzare un vero processo di pace. Le parole di obiettori israeliani e attivisti palestinesi che hanno portato la propria testimonianza in giro per l’Italia

E’ stato il primo a congratularsi, parlando di “vittoria enorme”. E certamente la nuova presidenza Trump è un asso nella manica per la guerra di Netanyahu che, in risposta all’attacco del 7 ottobre 2023, ha collezionato oltre 43mila morti palestinesi (tra cui più di 3mila bambini) e due sentenze storiche dalla Corte Internazionale di Giustizia prontamente ignorate: a gennaio la conferma della plausibilità del genocidio israeliano contro due milioni di palestinesi a Gaza, in estate la colpevolezza di Israele di apartheid e di illegale occupazione militare. Senza nessuna, seppur blanda, azione di contenimento da parte degli Usa, il conflitto potrebbe portare a scenari ancora più catastrofici.

Ancora più necessarie saranno dunque le tante voci di dissenso interno che, inascoltate, si levano in Israele e nelle molte comunità ebraiche internazionali.

Decostruire certezze

Ancora più coraggiose sembreranno dunque le iniziative come quella di organizzazioni come Mesarvot e CPT (Community Peacemakers Teams) e dei loro giovanissimi obiettori e attivisti. Nelle scorse settimane, su invito di Azione non violenta, quattro di loro hanno attraversato l’Italia da Milano a Bari per testimoniare in decine di incontri, dibattiti, conferenze e la grande manifestazione del 26 ottobre che la pace e il dialogo sono possibili.

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Noi li abbiamo incontrati nella sede del Centro Servizi per il Volontariato di Roma, dove hanno raccontato la loro esperienza in una tavola rotonda affollatissima a cui hanno partecipato anche la filosofa Donatella De Cesare e il sociologo Luigi Manconi. Quattro ragazzi, quattro biografie diversissime e un unico obiettivo: coltivare in ciascuno uno sguardo nuovo verso l’altro, verso coloro che l’educazione aveva catalogato senza scampo come “nemico”.

Dalla parte sbagliata. Daniel

«Sono cresciuto tra i coloni, in un mondo segregato – racconta Daniel Mizrahi, 28 anni obiettore di Mesarvot ovvero “noi rifiutiamo”, associazione che supporta chi non accetta di prestare servizio militare. – Ero sionista e al liceo ero convinto che sarei entrato nell’esercito e avrei contribuito a difenderci dai Palestinesi. Sapevo di loro quello che i nostri media ci raccontano: sono violenti, terroristi, vogliono la nostra terra e la nostra fine. Tutti noi studenti israeliani prestiamo il servizio militare subito dopo la maturità, quando è ancora facile convincerci ad uccidere i civili per la nostra salvezza. Io invece a 18 anni ho avuto una borsa di studio per andare all’università a Gerusalemme, dove metà della popolazione è palestinese. Li vedevo dall’università, nel loro quartiere isolato da un muro, poi ne ho conosciuto qualcuno e poi molti.

È stato un processo lungo e doloroso prendere coscienza di essere dalla parte sbagliata, rivedere tutte le idee che mi avevano inculcato, decidere di non voler essere responsabile del sangue di nessuno, attivarmi per poter costruire una società in cui tutti hanno uguali diritti».

Quando è arrivato la chiamata al servizio militare, Daniel ha deciso di rifiutare ed è scattata subito la prigione, 50 giorni. «Il carcere che ho conosciuto io non è niente – ha spiegato durante l’incontro con le Acli a Milano – in confronto a quello dei prigionieri palestinesi, e la libertà vera non so più cosa sia». Per poter essere sé stesso, ha rinunciato ai suoi familiari, alle sue radici e quando è nel suo ambiente di lavoro, evita di esprimere le sue idee, soprattutto tra i coetanei perché proprio sui giovani la pressione psicologica della società israeliana è fortissima.

Portare il dolore dell’altro. Sofia

Dopo essersi rifiutata di arruolarsi nell’IDF, di giorni nel carcere militare, invece, Sofia Orr ne ha trascorsi 85 prima di ottenere l’esenzione. «Ho maturato questa scelta quando avevo 15 anni – ha spiegato – e sono fortunata perché sono cresciuta in una famiglia progressista che mi ha sempre sostenuto, anche quando il mio caso è stato ripreso dai giornali nazionali e internazionali. Ho dato il massimo risalto possibile alla mia scelta perché so di essere una privilegiata e quasi nessun palestinese ha la mia stessa possibilità di far sentire la sua voce, la sua sofferenza. E’ mio dovere portare nella società israeliana il dolore dei palestinesi. L’unica soluzione non potrà mai essere militare, ma politica, sociale, in un processo di ascolto reciproco, di legittimazione e amplificazione della nostra posizione perché solo noi possiamo essere parte del cambiamento».

Il lato umano dei nemici. Aisha

Come Daniel, anche Aisha Omar, volontaria palestinese di Mesarvot, indossa la mascherina per evidenti motivi di sicurezza. Come Daniel, ma dall’altra parte del confine, nasce e cresce nei territori occupati sin dal 1948, per puro caso geo-politico non in Cisgiordania «perché non sono chiari i criteri con cui hanno delimitato quei confini» respirando il risentimento di chi sa di essere cittadino di serie B. «Da sempre so che siamo il 20 percento della popolazione che vive nel 2% del territorio. I muri sono pieni di scritte che incitano ad uccidere gli arabi, le nostre case vengono demolite perché secondo le leggi israeliane non sono a norma, a scuola si insegna la storia che non è mai la nostra storia e si può andare in carcere anche per un mese per un post su Facebook che mostra la nostra quotidianità. Eppure, nessuno fa niente». Aisha ha vissuto sulla sua pelle la repressione violenta a manifestazioni pacifiche ed è stato proprio l’incontro con Daniel a mostrarle una via d’uscita. «La sua scelta e quella degli obiettori di Mesarvot mi hanno dato speranza. Ho visto finalmente il lato umano di quelli che credevo solo dei nemici. Sono bilingue così ho cominciato a tradurre materiali e interviste, i comunicati dell’associazione per dare al mio popolo delle notizie e viceversa». Il suo lavoro volontario di intermediazione e relazioni, si è ulteriormente complicato con l’aggravarsi del conflitto.«Non bisogna scoraggiarsi, molti amici militanti mi credono un’illusa e invece sono ancora più convinta oggi che solo con l’incontro potremo creare democrazia e pace».

Da Gaza, giovani che parlano pace
Quattro testimoni di nonviolenza da Israele e Palestina nell’incontro svoltosi a Roma presso il Centro per il Servizio per il Volontariato del Lazio (Foto: Stefania Chinzari)

Agire sull’opinione pubblica. Tarteel

Palestinese di Hebron è Tarteel Al-Junaidi, dal 2019 attivista per i diritti umani con la Community Peacemaker Team , un’organizzazione affine a Mesarvot, per portare aiuto alle tante famiglie in difficoltà e diffondere le loro necessità. «Hebron è un posto molto intenso, ci sono checkpoints ovunque, ti fermano per qualunque motivo. Sono cresciuta vedendo e credendo che le nostre vite non hanno valore. Solo qui si può capire veramente cosa sia l’occupazione: io la pace non l’ho mai conosciuta perché siamo circondati da coloni estremisti che entrano quando vogliono e commettono ogni sorta di soprusi. Mi sento in colpa se penso ai tanti amici che sono morti, alle madri, ai bambini che sono stati uccisi… Sono qui anche per loro. Per dirvi che c’è bisogno di una comprensione profonda della nostra vita per poter arrivare al primo passo, che è il cessate il fuoco e poi al lungo processo che porterà alla pace. La soluzione dei due stati non è praticabile. Dobbiamo mettere fine alla discriminazione, cambiare il sistema, agire sull’opinione pubblica e i governi, ognuno di noi».

Speriamo che il loro coraggioso esempio sia un sasso nello stagno della nostra vergognosa politica, un sasso che porti i cerchi della pace fino alle sponde del mondo.

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti. Svolge attività di formazione sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione.
Giornalista professionista e scrittrice dal 1992, il suo ultimo libro è "Le mani in movimento" (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
E’ vice-presidente di Direttamente ets che sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.

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