Charlie Davoli,

«Abbiamo bisogno di anima per bilanciare il mondo e per armonizzare il creato», con queste parole Charlie Davoli, al secolo Riccardo Schirinzi, introduce l’opera che Lavazza ha scelto per il mese di aprile nell’attesissimo nuovo calendario 2021. Davoli è infatti uno tra i protagonisti del progetto artistico promosso dalla nota azienda torinese, che invita a riflettere su una rinascita personale e collettiva.

 

 

 

 

 

Nato nel 1976 nell’esotica Singapore, Charlie Davoli è un mix di origini diverse («Papà lavorava all’estero e, tra un viaggio di lavoro e l’altro nel sud est asiatico, era solito fare tappa nella città-stato, dove conobbe mia madre, il cui nonno era però un soldato inglese della Marina britannica»). A sei anni, con la famiglia si trasferisce in Puglia e oggi si racconta dal cuore del Salento, dove tuttora vive e può «godere del sole, del mare e della natura, una vita semplice e lenta che mi mette pace e serenità e dove coltivo spiritualità nella lentezza». La sua carriera artistica è letteralmente esplosa grazie ad Instagram, dove raccoglie un larghissimo seguito di appassionati, incantati dalla poesia onirica che trasmettono le sue immagini.

Charlie, per le tue immagini si parla di paradosso visivo, perché fondi in esse il contrasto tra ambiente urbano e natura. Il risultato sono immagini sognanti, irreali e poetiche, che aprono squarci su mondi solo apparentemente ideali.
Dalla mia opera emerge lo spaesamento davanti al dualismo del mondo contemporaneo. Ecco perché le figure umane sono spersonalizzate e sempre ritratte di spalle: non guardo alla persona fisica ma punto sull’aspetto umano.

 

 

Come hai iniziato la tua carriera?
Ho sempre vissuto un aspetto di urgenza creativa, che proiettavo dal dentro verso il fuori. Non ho però mai fatto studi specifici nel campo della fotografia o della grafica, ho iniziato per gioco e per passione.
Perché lo pseudonimo Charlie Davoli?
Prima di dedicarmi all’arte, suonavo la batteria in un gruppo. Eravamo grandi appassionati delle strumentazioni vintage analogiche, tanto che quando scegliemmo il nome della band ci sembrò naturale omaggiare la Davoli, un marchio storico degli anni ’60. Davoli divenne quindi una sorta di cognome per ognuno di noi; Charlie invece è come mi hanno sempre chiamato tutti sin da bambino. Ora il gruppo non c’è più, anche se qualcuno ha continuato a suonare. Io invece ho smesso, facendo una scelta radicale.

 

 

Come sei passato dalla musica all’arte visiva?
Quello che sono oggi nasce anche dalla fascinazione verso la parte estetica musicale che mi ha accompagnato lungo quel percorso. Mi sono reso conto con il tempo di aver dirottato quell’urgenza creativa degli esordi dalla musica verso la fotografia, sulla quale ho voluto far intervenire la parte grafica perché la fotografia, sola, mi sembrava noiosa. Mi sono infatti chiesto: cosa succederebbe se aggiungessi qualcosa di turbante o dissonante in questa immagine? Lì è stato l’inizio, eravamo intorno al 2006.

Quando hai iniziato a utilizzare Instagram come mezzo di comunicazione privilegiato per condividere la tua arte?
Fin dal 2012. Mi aveva parlato di questa applicazione un amico, poco dopo il suo arrivo in Italia. Ricordo che la cosa mi aveva incuriosito, ma cominciai a utilizzarla solo l’anno successivo. La conoscenza che avevo maturato negli anni precedenti utilizzando i programmi di grafica mi è tornata utile nel creare le mie composizioni visive per Instagram con l’Iphone. Dal 2016, anche sulla base delle richieste della committenza, ho invece ripreso ad utilizzare strumenti più sofisticati, per lavori in alta risoluzione. Con Instagram, infatti, lavoravo molto sull’impatto visivo, ma portando dal vivo le mie opere, e ampliandole di dimensione, la percezione visiva cambia e, di conseguenza, cambia il lavoro che sta dietro alla realizzazione dell’opera stessa.

 

 

Come costruisci le tue foto?
Di solito, quando vedo qualcosa che mi colpisce, scatto. Nel tempo ho costruito un grande archivio, così, quando sono ispirato, parto da una delle tante fotografie per andare a costruire l’immagine che scaturisce dalla mia poetica artistica. Le mie opere sono quadrate, come il formato di Instagram, ma anche e soprattutto come le copertine dei vinili, a dimostrazione che la mia formazione come musicista rimane una fonte d’ispirazione anche per il mio lavoro attuale.

Instagram ti ha regalato la notorietà.
L’Instagram degli inizi è diversa da quella attuale, lo ricordo anche con un po’ di nostalgia. Chi lo utilizzava, era appassionato di fotografia e si creavano delle vere e proprie comunità di riferimento. Io partivo da zero ma intorno al mio lavoro si è creato nel tempo un bacino di relazioni che da locale è diventato macro in maniera molto veloce, con uno scambio di opinioni molto fervido. I miei contatti lavorativi sono sempre arrivati in modo casuale, senza che li cercassi. Il mondo dell’arte d’altra parte ha saputo cogliere il cambiamento portato dai social; i curatori d’arte oggi li scandagliano per sapere cosa succede nel mondo. Intere nuove generazioni artistiche si affacciano sulla scena in questo modo e per loro i social sono un vero e proprio trampolino di lancio. L’importante è restare coerenti, positivi ed avere un messaggio onesto da trasmettere.

 

 

Quest’anno ti ha chiamato anche Lavazza per il loro celebre calendario, dedicato nell’edizione 2021 al tema The New Humanity, la nuova umanità, che ha supportato anche un’attività di raccolta fondi a sostegno di Save The Children.
È stata una grandissima emozione essere scelto per questo progetto. Inizialmente mi era stato chiesto di lavorare sul tema, ho scoperto solo in un momento successivo che il mio lavoro sarebbe finito nel calendario con maestri della fotografia come Steve McCurry o David LaChapelle.

Come definiresti il tuo lavoro?
Non amo essere inserito in una corrente artistica specifica, anzi toglierei tutte le etichette dai musei perché lo spettatore si lascia influenzare e si fa condurre spesso ad una visione passiva dell’opera. Ho sempre amato ironizzare cogliendo il disagio che si percepisce spesso e volentieri nella realtà esterna; lo facevo già da ragazzo quando nelle conversazioni iniziavo a giocare sui luoghi comuni, l’ho poi esportato nella mia arte. Questo gioco per esorcizzare il disagio lo faccio anche oggi traducendolo in immagini, mi è più facile che con le parole. Così nascono le mie composizioni visive, che rendo veritiere inserendo, in una continua ricerca di equilibrio e armonia, quegli elementi dissonanti che portano chi guarda verso mondi irreali. In tutte le mie opere la natura è protagonista. Esisterebbe senza gli esseri umani e non viceversa. Noi uomini tendiamo spesso a confondere i ruoli, con la convinzione di poterla gestire. Ma noi non possediamo nulla, siamo solo di passaggio e della natura dobbiamo diventare custodi.

 

 

Saperenetwork è...

Marina Maffei
Marina Maffei
Giornalista e cacciatrice di storie, ho fatto delle mie passioni il mio mestiere. Scrivo da sempre, fin da quando, appena diciassettenne, un mattino telefonai alla redazione de Il Monferrato e chiesi di parlare con l'allora direttore Marco Giorcelli per propormi nelle vesti di apprendista reporter. Lì è nata una scintilla che mi ha accompagnato durante l'università, mentre frequentavo la facoltà di Giurisprudenza, e negli anni successivi, fino a quando ho deciso di farne un lavoro a tempo pieno. La curiosità è la mia bussola ed oggi punta sui nuovi processi di comunicazione. Responsabile dell'ufficio stampa di una prestigiosa orchestra torinese, l'OFT, scrivo come freelance per alcune testate, tra cui La Stampa.

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