Jean Louis Trintignant nel 2007 (Foto: Alain Elorza, Flickr)

Jean-Louis Trintignant, uno sguardo limpido tra malinconia e gratitudine

Il grande attore francese, mancato lo scorso venerdì, è stato, nei decenni migliori del nostro cinema d’autore, indimenticabile protagonista anche di molti film italiani. Un ricordo del suo stile elegante e dell’umanità semplice e sofferta

Si comincia dalla fine, con Jean-Louis Trintignant. Dagli occhi teneri e miti, di una bellezza discreta, chiamati a restituire un altrove in cui non è dato entrare. Li fissa il regista Michael Haneke, che in Amour (2012) coglie la tensione della sua anima, quella crepa insinuatosi in una vita ‘scintillante’, incrinata dalla sofferenza e da un dolore sordo, profondo, emerso in superficie per brevi lampi, inscalfibile e insuperabile. Accanto a Emmanuelle Riva, già campionessa di disgregazione in Hiroshima mon amour di Resnais (1959), Trintignant dà corpo a un amore mesto, dolente, una presa in cura lungo i viali della memoria, che in Happy End (2017) si perde davanti al mare, sempre col volto afflitto da una dolcezza spezzata, da un sentire la vita come crudele e bellissima.

 

Guarda il trailer di Amour (2012)

È nel personaggio doppiamente interpretato per Haneke che l’attore francese, scomparso il 17 giugno all’età di 91 anni, mette in scena i desideri trattenuti e mai espressi ad alta voce, il bisogno di sopravvivere abbandonandosi, lasciando fluire il dolore.

Di lacerazioni ne aveva avute tante, Jean-Louis Trintignant. Dall’infanzia in disequilibrio, figlio di un resistente e di una donna che lo voleva femmina, accusata di collaborazionismo a causa della relazione con un ufficiale tedesco. E poi i drammi familiari, come la morte in culla della figlia Pauline e l’uccisione barbara, di botte e umiliazioni, della primogenita Marie nel 2003, percossa dal compagno Bernard Cantat, il frontman dei Noir Désir. «La morte di Marie è stata la più grande sofferenza della mia vita. Era impossibile immaginare un giorno senza sentire la sua voce, senza vedere il suo sorriso. Niente al mondo avrebbe potuto toccarmi di più».

 

Trintignant con la figlia Marie nel 1979

 

Per Gianni Amelio, che lo diresse in Colpire al cuore (1982), autobiografia di una nazione colpita e sedotta dalla lotta armata, Jean-Louis aveva smesso di vivere dopo la tragedia, «selezionava, faceva poco», segnato da una condizione che non ha nome (come si chiamano i genitori che perdono i propri figli?), da un riserbo che compendia l’unicità della sua persona, quell’essere anti-divo dentro e fuori lo schermo.

È sempre stato riservato Trintignant, forse per reazione al successo dell’esordio, quel Piace a troppi di Roger Vadim (1956) che consacrò Brigitte Bardot come sex symbol trascinando la loro unione nel tritacarne dei paparazzi, una girandola mediatica che, per ammissione dello stesso, non corrispondeva alle sue aspettative, alla sua idea di attore.

Un concetto nobile, così lontano dal divismo rampante, compiaciuto, piuttosto legato a un mestiere da svolgere «in modo anonimo, in clandestinità». Non c’è riuscito Jean-Louis, eppure lo stile elegante, sommesso, lo rendeva un soggetto altro, perfetto per interpretare un italiano che non c’era, ballerino di seconda fila, schiacciato dalle maschere smargiasse che Sordi, Gassman, Tognazzi sapevano ben indossare.

 

Trintignant in “Il sorpasso”, di Dino Risi, con Vittorio Gassman (Foto: Flickr)

 

Inevitabile citare Il sorpasso (1962), road-movie dell’Italia del boom che ha plasmato l’immaginario collettivo mediante la contrapposizione tra indolenza e serietà, tra boria e modestia. Commovente la sua figura nel film, uno studente strappato alle carte da Bruno Cortona (Gassman) nella Roma ferragostana, un deserto di calura e smarrimento dove conta l’ammazzare il tempo, il mordere la vita senza troppi progetti. Morirà Roberto-Trintignant, senza cognome perché Bruno non gliel’ha chiesto, così puro da stringere il cuore, da mostrare come l’innocenza non possa essere di questo mondo. Resta, del capolavoro di Dino Risi, la sequenza della decappottabile, in cui la mitezza di Jean-Louis si apre in una risata di gioia, con le braccia al cielo mentre Gassman accelera e la felicità sembra a un passo, lungo una strada sgombra dal traffico.

Del resto era la levità, il candore senza tempo, e per questo, forse, fuori tempo. il tratto distintivo del suo talento: una bravura senza affettazione, da cui non sfuggiva mai una smorfia, uno sforzo, un movimento progettato. Il lungo amore col cinema italiano lo aveva portato a lavorare per Bertolucci (Il conformista, 1970), Comencini (La donna della domenica, 1975), Zurlini (Il deserto dei Tartari, 1976), per Scola (La terrazza, 1980).

 

“La terrazza” film del 1980 di Ettore Scola

 

Nell’affresco nostalgico-farsesco de La terrazza di Ettore Scola, Trintignant è uno sceneggiatore senza idee, che si tempera la mano dinnanzi alla pagina bianca mentre l’intellighenzia di sinistra ciarla di utopia e rivoluzione, a mostrare la decadenza di un mondo posticcio, fatto di produttori laidi (Tognazzi che gli chiede con ossessione: «Fa ridere? Fa ridere?»), critici al capolinea, senatori dai vizi privati e dalle pubbliche virtù. Ci voleva quel volto limpido, gli occhi tristi solcati da ombre a garantire ai suoi personaggi una dose di autenticità altrimenti imposta, artefatta.

«Non ti si deve notare» gli diceva Costa-Gavras quando giravano Z – l’orgia del potere (1969), che gli valse il Prix d’interprétation masculine a Cannes. Il suo giudice istruttore, impegnato nelle indagini per l’omicidio del militante di sinistra Grigoris Lambrakis, ha persino gli occhiali scuri, come a schermarsi dal sudiciume, a guardare la Verità senza restarne accecato.

Guarda il trailer de “I migliori anni della nostra vita” (2019)

 

È stato questo Trintignant, cose distanti e convergenti. Il giovane carino e indeciso de La mia notte con Maud di Éric Rohmer (1969) e ancora il pilota automobilistico di Un uomo e una donna di Claude Lelouch (1966, Grand Prix a Cannes) al fianco di Anouk Aimée, ritrovata dopo più di cinquanta anni in I migliori anni della nostra vita (2019). Mai uno strillo, uno strepito, un’ostentazione senza misura. «È stato uno degli attori che ho amato di più» ha dichiarato Stefania Sandrelli a La Stampa. «Un uomo estremamente sensibile, elegante, discreto. Certo, quell’esperienza con Bertolucci è stata fondamentale per tutti e due. Ero molto giovane, Jean-Louis invece era già notissimo, ma, appunto, era rimasto una persona semplice, con cui è stato bellissimo recitare».

Un attore di un’altra epoca, di un’altra pasta, tra la malinconia della vita e la gratitudine di ogni momento. Nonostante tutto.

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Ginevra Amadio
Ginevra Amadio
Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e
violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Sue recensioni sono apparse in Oblio (Osservatorio bibliografico della letteratura otto-novecentesca) e sulla rivista del Premio Giovanni Comisso. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.

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