Cristina Cattaneo, antropologa e medico legale

Cristina Cattaneo, antropologa e medico legale

La scienziata che dà un nome ai morti nel Mediterraneo

Cristina Cattaneo, l’antropologa forense direttrice di Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forsense dell’Università di Milano, negli ultimi anni lavora, insieme ad altri esperti, per il riconoscimento dei cadaveri dei migranti annegati nel Mediterraneo. Per la scienziata: «Un morto senza nome è una storia senza fine»

Ha un’aria fragile, i capelli mossi che le incorniciano un viso da ragazza ed un sorriso dolcissimo, eppure il suo nome ricorre in molti dei grandi noir che hanno popolato le cronache giudiziarie degli ultimi anni. Lei è Cristina Cattaneo, l’antropologa forense più famosa d’Italia.

Dal 1996 dirige il Labanof, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Milano, struttura all’avanguardia negli esami di patologia e antropologia forense. È qui che indaga minutamente sui cadaveri delle vittime di alcuni tra gli omicidi più efferati che hanno sconvolto il nostro Paese. Oppure esamina i morti senza nome, ai quali ha dedicato libri intrisi di commovente umanità.

Tra questi, l’intenso Naufraghi senza volto, pubblicato nel 2018 da Raffaello Cortina Editore, dove la Cattaneo racconta l’impresa di riconoscere le centinaia di persone morte nei naufragi nel Mediterraneo del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.

«Due disastri che, per la loro portata, hanno smosso profondamente le coscienze – ricorda la dottoressa Cattaneo – ed hanno spinto a cercare una soluzione per cercare di restituire la dignità del nome alle vittime e certezze alle loro famiglie. È una questione di diritti dei morti, ma anche e soprattutto dei vivi, che devono conoscere la verità».

Un salvataggio di migranti a Lampedusa nel 2013 (Fonte: Unhcr)
Un salvataggio di migranti a Lampedusa nel 2013 (Fonte: Unhcr)

Ridare dignità a vittime e famiglie

Nel libro, che ha avuto grandissima eco sui media, la Cattaneo ricorda le difficoltà affrontate. In primis, il gap tra i dati raccolti post mortem e quelli reperibili ante mortem.

«Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il DNA non è sempre risolutivo quando si parla di migranti che vengono dai più disparati Paesi, perché il reperimento dei dati genetici da utilizzare a confronto può essere complesso. Acquistano così importanza altri elementi, come le fotografie, anche prese dai social network, che svelano ad esempio la presenza di tatuaggi o di segni di riconoscimento particolari».

Dopo il naufragio del 2013, vengono così create specifiche procedure di intervento per raccogliere quanti più dati post mortem possibile e viene lanciato un appello nei vari Paesi europei ai familiari di migranti eritrei mai giunti a destinazione.

«Inizialmente – ricorda la Cattaneo – quando abbiamo fissato le due prime date di incontro a Roma, non sapevamo bene cosa attenderci. La risposta invece è stata forte, con persone giunte anche da molto lontano, straziate da questa condizione di attesa senza fine».

Una richiesta diventata ancora più forte dopo il naufragio del 2015. «Nel frattempo – ricorda – il Commissario straordinario per le persone scomparse Vittorio Piscitelli, a capo delle attività identificative dei migranti morti in mare senza nome, aveva deciso di istituire una task force che si occupasse alla base Nato di Melilli  di riconoscere e identificare i corpi dei cittadini stranieri morti nel naufragio nel canale di Sicilia del 18 aprile 2015, recuperati, insieme allo scafo, dalla Marina Militare ed estratti dai Vigili del fuoco e dalla Croce Rossa Militare. Un’operazione umanitaria che ha visto impegnate l’Università di Milano in collaborazione con altre università italiane e che ha permesso di raccogliere i risultati di centinaia di esami autoptici».

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Sono state così fatte le prime identificazioni. «I migranti provenivano da tutta l’Africa e anche a distanza di anni i loro cari continuano a cercarli. Basti pensare che in Paesi come la Mauritania decine di persone si sono recate a cercare notizie al punto allestito dalla Croce Rossa».

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Una pagella in fondo al mare

Di questa esperienza, umana prima che professionale, la Cattaneo conserva ricordi forti. «Spogliando i cadaveri recuperati in fondo al mare abbiamo trovato oggetti di ogni genere, come la pagella del ragazzino del Mali o il pugno di terra raccolto e cucito in una tasca nella maglietta degli Eritrei, per ricordare la terra delle origini dolorosamente lasciata alle spalle». Oggetti il cui ritrovamento annulla una volta di più, se necessario, il senso di distanza tra chi ha avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta del mondo e chi no.

Il ricavato dai diritti d’autore del libro va interamente al Labanof e servirà per proseguire il lavoro sui migranti.  La Cattaneo, in questi ultimi anni, ha dirottato gran parte delle sue energie sull’impegno umanitario. «Il mio approccio è cambiato: se prima ero concentrata solo sugli aspetti criminalistici legati alla medicina legale, ora capisco meglio come questa possa essere messa al servizio del diritto umanitario, per rendere giustizia alle persone che non hanno voce e contrastare maltrattamenti, torture e altre sopraffazioni. Grazie all’applicazione delle nuove scienze forensi, i resti umani possono rivelare molte cose, non solo per la determinazione della causa e la modalità di morte, ma anche nella lotta per i diritti umani».

«La medicina legale umanitaria ha anche un altro risvolto – continua la Cattaneo – Su richiesta del Comune di Milano, ci occupiamo di accertare la presenza di segni di tortura sui richiedenti asilo: dobbiamo verificare se il loro racconto è coerente con i segni che portano sul corpo. Un compito estremamente difficile e delicato, che ci vede lavorare a stretto contatto con psicologi e psichiatri, e che ci porta a confrontarci con culture radicalmente diversa dalla nostra».

Medico legale ed antropologa forense, la storia della Cattaneo è fatta di studio, dedizione, passione. Originaria di Pontestura, nel Monferrato alessandrino, trascorre l’infanzia in Canada, dove la famiglia si è trasferita al seguito del padre. Torna adolescente in Piemonte per compiere gli studi classici. Si laurea in Scienze biomediche in Canada e ottiene un Master e un PhD in antropologia in Inghilterra prima di laurearsi in Medicina in Italia e poi specializzarsi in Medicina Legale.  Dirige il Labanof dal 1996 ed è professore ordinario di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Milano.

Con il suo lavoro cerca di contrastare il buio ed il dolore con la scienza, in quell’eterna ricerca di verità che, sola, può garantire giustizia e in qualche modo pace. Pur essendo abituata a stare sotto i riflettori, detesta la spettacolarizzazione che alcuni casi hanno subito, fino a trasformare in macabre icone i loro sfortunati protagonisti, da Elisa Claps ad Elena Ceste fino a Yara Gambirasio.

«Il nostro è un supporto alle indagini e non può sostituirsi a queste. Ma è vero che la carta bianca che in alcune occasioni le Procure ci hanno dato, ha aperto un mondo nuovo per la nostra professione, consentendoci di sperimentare e di approdare a nuove soluzioni investigative con risultati importanti».

Cristina Cattaneo all'interno del Laboratorio di antropologia e odontologia forense
Cristina Cattaneo all’interno del Laboratorio di antropologia e odontologia forense

Un team di scienziati alla ricerca della verità

Indagini che Cristina conduce instancabilmente avvalendosi della competenza di un pool di esperti, che variano a seconda dei casi: è così che i corpi vengono analizzati sotto il profilo genetico, tossicologico, antropologico e anche naturalistico. Vengono vagliati tutti gli elementi che ogni cadavere irrimediabilmente porta con sé. La terra che incrosta le ossa, i frammenti di una piccola radice, le larve che hanno colonizzato quello che una volta era un femore, sono solo alcuni degli elementi studiati. Geologi, botanici, archeologi, entomologi, chimici; ognuno può dare il suo contributo. Emblematico il caso delle vittime delle Bestie di Satana, rinvenute sepolte in un bosco nel Varesotto: fu decisivo per la datazione della morte lo studio della stratigrafia dei terreni.

«Un morto senza nome – ragiona Cristina – è una storia senza fine».

Ed è per questo che la Cattaneo alcuni anni fa è stata protagonista, insieme alle associazioni impegnate nella ricerca di persone scomparse ed al programma televisivo Chi l’ha visto?, di un’importante campagna per la creazione di un database delle persone scomparse e i cadaveri sconosciuti. Fu quel pressing mediatico che portò alla nomina di un Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, con il quale il Labanof collabora da diversi anni, ed alla creazione nel 2010 del sistema Ri.Sc. (Ricerca Persone Scomparse). Questo archivio elettronico, tra i primi in Europa, racchiude i moduli digitali per la raccolta da parte di Polizia e Carabinieri dei dati ante mortem sulle persone scomparse. E dei dati post mortem rilevati dai medici legali sui resti umani non identificati. Entrambi i moduli contengono informazioni riguardanti il sesso, l’età, gli indumenti, i connotati e contrassegni, i dati clinici, dentari ed eventualmente genetici.

La Cattaneo ha raccontato alcune delle sue esperienze professionali, con la delicatezza e l’umanità che la contraddistinguono, nei libri Morti senza nome (Mondadori, 2005), Turno di notte (Mondadori, 2007), Crimini e farfalle (Cortina Raffaello, 2006), Certezze provvisorie (Mondadori, 2010) e nel recentissimo Corpi, scheletri e delitti. Le storie del Labanof (Raffaello Cortina, 2019)


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Marina Maffei
Marina Maffei
Giornalista e cacciatrice di storie, ho fatto delle mie passioni il mio mestiere. Scrivo da sempre, fin da quando, appena diciassettenne, un mattino telefonai alla redazione de Il Monferrato e chiesi di parlare con l'allora direttore Marco Giorcelli per propormi nelle vesti di apprendista reporter. Lì è nata una scintilla che mi ha accompagnato durante l'università, mentre frequentavo la facoltà di Giurisprudenza, e negli anni successivi, fino a quando ho deciso di farne un lavoro a tempo pieno. La curiosità è la mia bussola ed oggi punta sui nuovi processi di comunicazione. Responsabile dell'ufficio stampa di una prestigiosa orchestra torinese, l'OFT, scrivo come freelance per alcune testate, tra cui La Stampa.

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