Stefano Rodotà

Stefano Rodotà è stato un giurista, politico e accademico italiano

Solidarietà. Un’utopia necessaria

Le nuove sfide della contemporaneità richiedono di ripensare i nostri ordinamenti giuridici. Per sfuggire alle derive nazionalistiche e scongiurare nuovi conflitti, l’Europa deve riscoprire i suoi principi fondativi. In che modo? Lo spiega Stefano Rodatà in un intenso saggio

Nella storia delle democrazie c’è un principio che è stato spesso oscurato e che tuttavia nella crisi economica, ma anche culturale e politica che sta attraversando l’occidente, riaffiora con un nuovo slancio. È il principio di solidarietà. Un antidoto che, secondo Stefano Rodotà, autore del saggio “Solidarietà. Un’utopia necessaria”, potrebbe contribuire a ricucire le fratture sociali alimentate in molti casi dalle disuguaglianze economiche e dalla paura dello straniero. Due importanti questioni che stanno mettendo in discussione il futuro dell’Unione Europea. Affinché la solidarietà possa definitivamente radicarsi nel tessuto sociale, secondo il giurista, politico e accademico scomparso nel 2017, è necessario, però, compiere una scelta chiara in direzione di un costituzionalismo  che  sia capace di non cedere  alle logiche dell’economia. E che sia in grado di costruire legami solidali  più  della politica  e della morale.

Guarda l’intervento di Stefano Rodotà

In altre parole la solidarietà deve entrare a tutti gli effetti nella sfera giuridica. Perché, come ha evidenziato nel 1916 Roxa Luxemburg, la crisi delle solidarietà provoca effetti sulla stessa tenuta della democrazia e mette in pericolo i  principi di libertà e di uguaglianza. E potremmo facilmente  trovarci di fronte a un nuovo bivio, che non è più quello che fra socialismo o barbarie, ma  fra solidarietà o barbarie. Dal saggio emerge un chiaro tentativo di evidenziare i possibili equivoci, specialmente semantici, che potrebbero oscurare la reale potenzialità della solidarietà. Per salvaguardare il modello sociale basato sulla difesa della proprietà privata, infatti, si tende a far coincidere la solidarietà con la carità, la beneficenza, la compassione.

«Tutte parole che non appartengono al lessico della dignità o dei diritti (…) ma rinviano piuttosto alla benevolenza altrui, sottolineando la minorità, e la subalternità, di chi si trova ad esserne oggetto».

Questo non è semplicemente uno slittamento semantico. Il depotenziamento  della solidarietà può avere  degli affetti concreti nella società. Lo riscontriamo negli Stati Uniti, dove le disuguaglianze vengono affrontate con programmi caritatevoli. Non si può dire la stessa cosa in Europa, dove la comparsa del movimento operaio ha portato alla nascita dei diritti sociali alternativi ai diritti individuali ben radicati nella società americana, che costringe l’individuo a riscoprire il principio di solidarietà soltanto nella propria comunità di appartenenza. Tuttavia la solidarietà espressa dal comunitarismo americano è soltanto parziale. È troppo legata cioè a visioni identitarie forti. E  non sembra essere adatta pertanto  a  un  mondo che è sempre più interconnesso e aperto. I confini della comunità o della nazione non sembrano dare la giusta risposta alle istanze che provengono dai cittadini contemporanei, che di fatto vivono in una società cosmopolita.

Viviamo  in un nuovo spazio in cui «la cittadinanza va intesa come l’insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo dove essa si trova e il cui funzionamento è frutto appunto di una logica solidale, che generalizza l’inclusione dell’altro rafforzando lo stesso riferimento al principio di uguaglianza». E proprio il riconoscimento della cittadinanza universale e solidale consentirebbe di costruire un’Europa dei cittadini e non dei mercati.

Per usare le parole del filosofo tedesco Jürgen Habermas: «Solo la solidarietà può liberarci dall’odio fra paesi creditori e paesi debitori, che sta alla base dell’attuale crisi europea». Allo stesso tempo, si legge nel saggio di Rodotà, la solidarietà è l’unico strumento che ci consente di affrontare problemi che non possono più essere delegati allo Stato sociale. È il caso di due importanti  questioni: quella  dei migranti e quella ecologica che, oltre all’indispensabile accordo politico globale, hanno bisogno del contributo e della partecipazione di una cittadinanza sovranazionale.

il filosofo Habermas
Il filosofo Jürgen Habermas

Di fatto è una cittadinanza cosmopolita che ancora non ha una sua concretezza storica. Non è ancora un soggetto politico unificante, come quello della classe operaia, che ha tradotto la solidarietà in diritti sociali. Siamo piuttosto in presenza di una moltitudine senza confini (hacker, occupanti, migranti…), che però può contribuire a contrastare il monopolio normativo dei grandi soggetti economici. Ciò si verifica quando si fa per esempio appello alla Corte di giustizia dell’Unione Europea o alla Carta dei diritti, in cui gli Stati membri hanno sottoscritto un patto di solidarietà sorretto dalla responsabilità nei confronti della comunità umana e delle generazioni future.  Certo, si potrebbe obiettare che quando si parla di umanità s’incorre in una parola impegnativa. In un concetto difficile da definire. E lo sapeva bene Pierre Joseph Proudhon quando affermava: «Quid dit humanité veut tromper» o «Chi dice umanità vuole ingannarti». Per rovesciare questa asserzione, Stefano Rodotà chiama in causa di nuovo il movimento operaio, quello che nel canto dell’Internazionale fa appello alla futura umanità. L’umanità è il confine dei nostri tempi, intorno al quale dobbiamo muoverci in materia di diritti. Che non deve essere considerata come «la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un insieme biologico, una realtà comunque già esistente, di cui ci si può limitare a prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione comune e, appunto solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un valore aggiunto, quanto piuttosto una realtà continuamente aumentata».

In altri termini, prendendo il prestito le parole di Hannah Arendt, contro ogni tentativo di accantonare il concetto di umanità in nome di un realismo che si traduce nella legittimazione di politiche di potenza, dovremmo riconoscere che «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ognuno all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa».

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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