Un momento dello spettacolo M il figlio del secolo

M Il figlio del secolo, di e con Massimo Popolizio. Lo spettacolo, tratto dal romanzo di Antonio Scurati, è al Teatro Argentina di Roma fino al 3 aprile (Foto: Masiar Pasquali/Facebook)

“M”, il figlio del secolo. La grottesca (e sempre attuale) presa del potere del guitto Mussolini

Dopo il debutto al Piccolo di Milano, lo spettacolo tratto dal romanzo di Antonio Scurati, con la regia di Massimo Popolizio, è al Teatro Argentina di Roma fino al 3 aprile. Attualissimo in questi tempi di guerre e populismi

«Come è bravo, come è bravo», continuava a ripetere la vicina di poltrona al Teatro Argentina di Roma. Già, come è bravo Massimo Popolizio, regista e interprete di M Il figlio del secolo, sublime adattamento teatrale dell’omonimo romanzo documentario su Benito Mussolini a firma di Antonio Scurati. Caso letterario del 2018, tanto da vincere il premio Strega dell’anno successivo (228 voti ottenuti al Ninfeo di Villa Giulia e più di 120mila copie vendute) e trovare in M. L’uomo della provvidenza il suo seguito (narra infatti le vicende dal1925 al 1932), il libro, portato sulla Rai in un reading letterario di Luca Zingaretti, Valerio Mastandrea e Marco D’Amore, nel teatro terrazza del Palazzo dei Congressi di Roma, è già stato opzionato per diventare una serie tv: più di 800 pagine che hanno spinto Popolizio e Lorenzo Pavolini a puntare tutto sul montaggio, decidendo di ricreare dialoghi e personaggi fedelmente sulle parole originarie.

 

 

Produzione del Piccolo Teatro di Milano, Teatro di Roma e Luce Cinecittà, in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina, lo spettacolo, in due atti divisi in 31 quadri teatrali, vede in scena 18 attori impersonare 80 personaggi.
Popolizio sceglie una struttura circolare, che si apre e si chiude con l’ultima battuta del libro:

«Alla fine si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io».

È il 3 gennaio 1925, Benito Mussolini pronuncia alla Camera dei deputati del Regno d’Italia un fatidico discorso, ricordato dalla storia come Il discorso di Mussolini sul delitto Matteotti, in cui si assunse «la responsabilità politica, morale e storica» di quanto era avvenuto in Italia negli ultimi mesi e soprattutto dell’uccisione del parlamentare socialista: l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario.

 

      Guarda il video di M Il figlio del secolo 

 

 

In mezzo, in 2 ore e 45 minuti condensa i sei anni, dal 1919 al 1925, che vanno dalla nascita del nazionalismo fascista dopo la Grande Guerra alla marcia su Roma e alla definitiva ascesa e consacrazione del Duce. A vestirne i panni, ripuliti da Margherita Sarfatti (interpretata da Sandra Toffolatti), donna dalla poliedrica intelligenza e vastità cultura, prima in Europa a occuparsi di critica d’arte, Tommaso Ragno, in stato di grazia, e lo stesso Popolizio, che costruisce per sé il ruolo di Benito “il teatrante”. In entrambe le figure è rifuggita la copia carbone fisica del duce: lontano il Mussolini cinematografico di Sono tornato, di Luca Miniero, con un Popolizio pelato e in divisa fascista.

Sul palcoscenico a prendere vita è l’idea di Mussolini, non il suo corpo, quello che lo stesso Scurati ha definito «archetipo di ogni successiva leadership populista, fino ai nostri giorni».

A sottolineare la storicizzazione della pièce, per allontanare il più possibile il pericolo di un ammiccamento, fin troppo facile, ai tempi presenti, i costumi anni Venti di Gianluca Sbicca. Sopra le righe, grottesco, eccessivo, il cabaret espressionista di Popolizio mette in scena protagonisti che parlano in terza persona, in quella maniera resa immortale da Luca Ronconi (e non a caso Popolizio ha partecipato a ben 35 spettacoli del Maestro, interpretando Giuliano Valdarena in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, del 1996, Mitja ne I fratelli Karamazov, del 1998, Mayer in Lehman Trilogy, del 2015). «Quello che ho imparato da Luca Ronconi, unico regista che lo sapeva fare, è la capacità di creare in palcoscenico un primo piano, un campo lungo, un campo medio e uno sfondo. Quando si allestisce un’opera non nata per il palcoscenico, che comporta battute in terza persona, la chiarezza è fondamentale per mettere il pubblico in condizione di seguire. Tale nitidezza è frutto di un continuo movimento di macchina, con alcuni attori che vengono in primo piano a pronunciare le loro battute e si portano quindi all’attenzione dello spettatore, mette altri escono dal fuoco; chi in quel momento non sta recitando, ma è comunque in scena, non deve costituire un elemento di distrazione o di disturbo. Pertanto, il palcoscenico va impiegato in tutto il suo potenziale; mai come in questo caso lo spazio, e quindi la scenografia di Marco Rossi è parte integrante della scrittura drammaturgica», si legge nelle note di regia.

Ecco allora Marinetti e D’Annunzio, Italo Balbo (così meschino nella sua cattiveria da risultare difficile applaudire il pur validissimo Paolo Musio), Ida Dalser e Nicola Bombacci, fino a personaggi inventati funzionali alla drammaturgia del testo, come il reporter (un bravissimo Michele Nani, ora accorato testimone della Marcia su Roma, ora pavido narratore della presa del potere), muoversi senza sosta nell’enorme scatola nera costruita da Rossi (di nuovo non a caso, collaboratore di lungo corso di Ronconi), dentro cui a cambiare sono i fondali proiettati e piccoli e grandi dettagli che mutano in un attimo l’ambientazione.

Ci sono il popolino, la piccola borghesia, i deputati, gli operai e i compagni, tutti pronti a salire sul carro del vincitore. Gli unici a opporsi, i due socialisti Pietro Nenni (di nuovo Paolo Musio), in una tenzone guerresca tutta giocata a colpi di retorica, e Giacomo Matteotti (Raffaele Esposito), il figlio del Polesine che predicava la non violenza come unica arma per sconfiggere i fascisti.

Se in Un nemico del popolo, Popolizio si era ritagliato il ruolo del dottor Stockmann, il medico della stazione termale di Ibsen che si batte per la verità, si libera della menzogna sociale e diventa il più forte, ma resta solo e impotente, qui lascia a Esposito l’afflitto politico che si batte e muore, ma si tramuta in faro di un mondo migliore. E chissà che in quel mondo migliore in cui in tanti ancora sperano, malgrado troppo spesso si venga assaliti dal dubbio che il fascismo non sia “il virus che dilaga, ma il corpo che lo accoglie”, quella M stia proprio per Matteotti e non per Mussolini. A stare all’attualità, il figlio del Novecento ci ha amaramente insegnato che «quando il popolo si impara a dire che sei bravo, sei bravo sempre. Anche quando non fai niente».

 

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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