Martin Luther King Vs Fbi. L’ossessione del potere, tra razzismo e pettegolezzo
Esce oggi, 14 febbraio, al cinema in Italia il documentario evento di Sam Pollard sul contrasto tra due icone degli Stati Uniti, il leader afroamericano dei diritti civili e J.Edgar Hoover. In sala fino al 16 febbraio
Cimici nelle stanze d’albergo, telefoni intercettati, talpe nei cortei, giornalisti corrotti: Martin Luther King vs FBI, documentario diretto da Sam Pollard, al cinema con Wanted Cinema e il patrocinio di Amnesty International Italia il 14, 15 e 16 febbraio, accende i riflettori sull’accanimento del Federal Bureau of Investigation e del suo direttore, J. Edgar Hoover (a capo dell’intelligence statunitense per ben 37 anni, dal ’35 al ’72), nei confronti del leader dei diritti civili, punto di riferimento nella battaglia per l’emancipazione dei neri d’America.
Il regista, Sam Pollard, già vincitore di un Emmy Award con By the People: The Election of Barack Obama, prodotto da Edward Norton, è stato nominato agli Oscar per 4 Little Girls diretto da Spike Lee e dedicato alle bambine afroamericane uccise il 15 settembre 1963, in una chiesa battista di Birmingham in Alabama a causa dell’esplosione di una bomba durante la funzione domenicale. Si occupa, stavolta, dell’interesse quasi ossessivo di cui fu oggetto King, dalla marcia su Washington nell’agosto 1963 fino al suo assassinio, nell’aprile 1968. Risme di carta, registrazioni e innumerevoli ore sono state spese per seguirne ogni azione e ogni parola, dai pulpiti delle chiese come dalle alcove clandestine. Hoover lo considerava una minaccia per la sicurezza nazionale ed era determinato a diminuirne l’influenza anche grazie alle sue liaison extraconiugali.
Pollard, per analizzare la campagna di diffamazione messa in atto nei suoi confronti, si è avvalso dei documenti resi accessibili grazie al Freedom of Information Act, la legge sulla libertà di informazione emanata negli Stati Uniti d’America il 4 luglio 1966 durante il mandato del presidente Lyndon B. Johnson, che ha aperto a giornalisti e studiosi l’accesso agli archivi della National Archives and Records Administration e a molti notizie riservate e coperte dal segreto di Stato, di carattere storico o di attualità. Fondamentale per la ricostruzione anche il libro del 1981 The FBI and Martin Luther King, Jr.: From “Solo” to Memphis di David J. Garrow, che nel 2004 ha vinto il Premio Pulitzer con la biografia di King, Bearing the Cross: Martin Luther King, Jr., and the Southern Christian Leadership Conference.
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A fare da contrappunto, scene di film hollywoodiani dell’era McCarthy, come le due pellicole di Gordon Douglas La grande minaccia (Walk a Crooked Mile, del 1948), e I Was a Communist for the FBI del 1951: gli estratti servono al regista per svelare alcuni degli stereotipi più diffusi in quel periodo, come l’idea che la comunità nera fosse particolarmente suscettibile al reclutamento comunista.
Allo stesso tempo, mostra spezzoni di lungometraggi come Sono un agente FBI (The FBI Story), del 1959 diretto da Mervyn LeRoy e interpretato da James Stewart, a evidente carattere propagandistico e fortemente voluto da Hoover (che compare brevemente nel film, interpretando sé stesso): il film narra la storia del FBI dal 1924 sino al dopoguerra, offrendo in maniera cristallina quale dovesse essere l’immagine pubblica del G-Man, il Government Man (Uomo del Governo): bianco, conservatore, impeccabile, irreprensibile e degno di essere interpretato dalle star del cinema.
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Paladino dell’ordine civile chiamato a difendere la donna bianca dal maschio nero stupratore, pericolo per l’intera società. Perché al fondo dell’ossessione di Hoover per King sembra celarsi una maniacale fissazione nei confronti dell’iper-sessualità affibbiata alla comunità afroamericana; uno stigma talmente atavico che ancora negli anni Novanta bell hooks scriveva (in uno dei saggi raccolti da Maria Nadotti in Elogio del margine):
«I maschi neri sono costruiti, per usare le parole di Michael Dyson, come ‘falli ambulanti in preda a un desiderio non corrisposto per l’oggetto che viene loro negato – la donna bianca».
Il Reverendo King, sposato e padre di 4 figli, fedifrago più volte ascoltato segretamente mentre si intrattiene con altre donne, non fa che confermare il pregiudizio di Hoover. King secondo le sue parole è “il bugiardo più famoso del Paese”; per William Sullivan, altro funzionario di spicco all’interno del Bureau, è «Il negro più pericoloso per il futuro della nazione dal punto di vista del comunismo, del negro e della sicurezza nazionale»; il fascicolo su di lui è pieno di ostilità, allusioni sessuali e pettegolezzi. Tuttavia, seguendo così minuziosamente i suoi viaggi, i suoi discorsi e le sue riunioni, l’FBI ha inconsapevolmente preservato materiale di vitale interesse storico che sarebbe andato perso se non fosse stato sorvegliato con così tanto zelo. Martin Luther King vs FBI non vuole, però, essere un’agiografia del primo a scapito dei secondi: il documentario, infatti, mostra come, al culmine del suo attivismo, fosse decisamente lontano dall’icona universalmente ammirata che è oggi; al contrario, il suo strenuo impegno in nome della giustizia e dell’uguaglianza e la sua volontà infaticabile di combattere tanto la compiacenza dei bianchi moderati quanto il suprematismo bianco erano più radicali di quanto a volte il discorso odierno apprezzi.
Implicita è, invece, una questione fondante nella lettura che si fa sempre più spesso dei protagonisti della storia, vale a dire la richiesta di una perfezione e di una probità rigorosa, nella vita pubblica come in quella privata. Si può continuare ad ammirare l’attivista King pur riconoscendo in lui una condotta riprensibile nei confronti dei suoi doveri coniugali?
La stessa Ava DuVernay, regista del bel Selma – La strada per la libertà, del 2014 (un Oscar per Glory come miglior canzone), nel raccontare le marce da Selma a Montgomery che nel 1965 segnarono l’apice delle rivolte degli afroamericani per il diritto di voto, non nascondeva i tradimenti del pastore ma si limitava a trattarli con tatto.
Non a caso, all’inizio del documentario, la storica Donna Murch rilascia una considerazione illuminante: «Quando costruisci un uomo come un grande uomo, niente dà più soddisfazione di vederlo rappresentato poi come il contrario».
Insieme, Sam Pollard raccoglie le testimonianze di James Comey, a capo dell’FBI dal 2013 al 2017, di Andrew Young, collaboratore di Martin Luther King, Jr. alla Southern Christian Leadership Conference (SCLC) negli anni ’60, Clarence Jones, consigliere personale, avvocato, scrittore di discorsi e amico intimo di King, e la storica Beverly Gage, esperta di storia dell’FBI. In un modo o nell’altro, tutti loro concordano sul rischio insito nell’ascolto dei nastri raccolti dall’FBI durante le ore di intercettazioni, sotto sigillo del Governo fino al 2027, e nella loro diffusione.
Cui prodest aprire quei file finora riservati? Giova, invece, tenere gli occhi bene aperti sulle insidie del razzismo, neanche troppo strisciante, nella nostra società europea come in quella americana.
Saperenetwork è...
- Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.
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