Peter Brook nel 2013

Facevano 42 gradi anche nella torrida estate del 1985. Nella cava di pietra fuori Avignone si arrivava via fiume, in lento pellegrinaggio, consapevoli di scivolare entro un altro spazio, un altro tempo. Dall’alba al tramonto, come nei tempi antichissimi, Peter Brook allestiva le nove ore di spettacolo del suo Mahabharata, il sacro testo cuore della cultura indiana. Quel poema ricco e potente, lungo quanto venti Divine Commedie e fondante come la Bibbia, l’Iliade e l’Odissea messe insieme, non poteva non attrarre il geniale regista inglese scomparso sabato scorso a Parigi all’età di 97 anni.

Guerra, amore, rapporto con il divino, fedeltà e tradimenti, giustizia e tolleranza animavano la scena spoglia e potente di un teatro innalzato alla sua essenza: il corpo dell’attore, la voce, la gestualità, il mito arcaico che rispecchia e apre domande sul presente.

 

 

Le domande che hanno lacerato il Novecento che Brook ha attraversato da protagonista, da artista inarrivabile, da Maestro in un secolo ricchissimo di maestri della scena, sempre attento alle contraddizioni del mondo.

Figlio di un menscevico russo esiliato nel 1907, Peter nacque il 21 marzo 1925 a Londra e nei suoi sogni si vedeva regista di cinema. Fu quasi un ripiego quello di studiare teatro e letteratura russa a Oxford per approdare, appena ventunenne, alla sua prima regia: Pene d’amor perdute di Shakespeare e, l’anno successivo, al Giulietta e Romeo già rappresentate nel tempio del teatro shakespeariano a Stratford-upon-Avon, città natale dell’immenso poeta inglese. A Shakespeare Brook tornò ciclicamente, come ad una inesauribile fonte, nel corso della sua sfolgorante e rapidissima carriera.

 

 

A 23 anni fu nominato produttore alla Royal Opera House di Covent Garden, licenziato pochi mesi più tardi per aver oltraggiato l’istituzione con lo scandalo di una Salomé di Richard Strauss allestita sullo sfondo surrealista di Salvador Dalì. Da qui il soprannome di enfant terrible del teatro da cui, per fortuna, non si è mai liberato. Nel 1962 dirige la Royal Shakespeare Company e lo spettacolo che lo rivela al grande pubblico è il Tito Andronico del ‘55, con Laurence Oliver e Vivien Leigh. Lavoreranno con lui gli attori più grandi della scena inglese, da John Gielgud a Paul Scofield, da Glenda Jackson a Ben Kingsley.

Ma Brook non è regista per divi. Chiede e avvia un laboratorio di ricerca per sperimentare sul campo il “Teatro della crudeltà”.

Legge le teorie di inizio secolo dei padri della sperimentazione teatrale, Antonin Artaud, Gordon Craig, Mejerchold, Brecht e quelle del suo maestro spirituale Gurdjeff. Avvia collaborazioni con quanti, in quegli effervescenti anni Sessanta, stanno sovvertendo anche le convenzioni teatrali, Living Theatre e Jerzy Grotowski in testa. E affronta i temi urgenti e scottanti della follia, dei campi di concentramento, della guerra.

 

Estratto da The empty space (Gerard Feil,1973) docufilm sul teatro sperimentale di Brook  

 

Arrivano Marat/Sade e L’istruttoria di Peter WeissUS, una creazione collettiva sul Vietnam. «Ero saturo dell’immaginario che mi aveva nutrito in passato e che pure avevo amato così tanto. Cercavo l’essenzialità nel teatro e non potevo non arrivare all’attore, al corpo, alla respirazione», ha raccontato.

E nell’anno mitico 1968 la sua ricerca formale si condensa in un lavoro teorico altrettanto mitico, Lo spazio vuoto: «Posso prendere un qualunque spazio vuoto e chiamarlo nudo palcoscenico. Un uomo attraversa questo spazio vuoto e un altro lo guarda. E non c’è bisogno di altro perché sia il teatro». Il teatro borghese, bianco e convenzionale è ormai la morte della scena.

Nel 1970 con un memorabile allestimento di Sogno di una notte di mezza estate nel vuoto immacolato agito da attori-trapezisti, dà l’addio alle scene inglesi. Nel 1974, all’apice del successo, si trasferisce a Parigi, dove ha conosciuto e apprezzato Jean-Louis Barrault, e fonda il Centre International de Recherches Théâtrales (Cirt) per dare subito vita ad uno dei suoi lavori più sperimentali, Orghast, uno spettacolo-rito che intreccia PrometeoLa vita è sogno di Calderon, Zoroastro e le leggende persiane, in scena nel ‘71 a Persepoli in Iran.

 

 

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Con Natasha Perry, sposata nel 1951, Helen Mirren, Bruce Myers, l’artista giapponese Yoshi Oida e l’attore africano Malick Bowens parte per anni di nomadismo artistico: Africa, Medio Oriente, Americhe per collezionare altre visioni, sonorità, creatività oltre l’Occidente.

Portano in teatro in posti dove solitamente il teatro non si avventura: nelle case degli immigrati alle estreme periferie, nei villaggi del Mali, tra le oasi del Sahara, nei patii dei Chicanos lungo il confine messicano e tra i vicoli del Bronx, nelle fattorie, nei garage, nei cinema ormai abbandonati…

Scopre così Les Bouffes du Nord, a Parigi, uno spazio camaleontico e rovinato nel 10° arrondissement che diventerà la nuova casa dell’eterogenea famiglia teatrale Brook. Qui nascono Les Iks dallo studio antropologico di Turnbull sulla tribù africana passata senza transizioni dall’età del ferro al XX secolo, la Conferenza degli uccelli, l’intimissima lettura del Giardino dei ciliegi con Michel Piccoli, La tragedia di Carmen con cui Brook arriva a sovvertire e a modernizzare il teatro musicale, portando lo spazio scenico nella platea inondata di sabbia, come in un’eterna corrida di passioni.

 

Peter Brook nel suo teatro a Parigi (Foto: Thomas Rome, Flickr)

 

Ma il suo eclettismo, la sua sete, l’inesauribile sorgente creativa non sembrano arrestarsi. Ecco negli ultimi decenni un altro capolavoro come Il flauto magico, due opere liriche (Impression de Pelléas da Debussy e un Don Giovanni di Mozart). Ancora Shakespeare. Due lavori, l’Homme qui e Je suis un phenomène, tratti dalle opere di due neurologi, l’americano Oliver Sacks e il russo A.R. Lurija. Giorni Felici di Beckett, i due spettacoli “sudafricani”, Woza Albert di Percy Mtwa e Le Costume tratto da un racconto dello scrittore Can Themba fino a Tierno Bokar ispirato al Sufi maliano che parla di tolleranza. Il grande inquisitore da Dostojevskij e The Prisoner portato anche a Roma pochi anni fa, in un elenco incompleto la cui eterogeneità può solo illuminare il senso di una ricerca che attraverso il teatro ha ispirato Brook ad investigare ancora e ancora l’uomo e la vita: «L’essere umano è l’unico esoterismo che vale la pena di decifrare», ha detto questo artista inarrivabile.

 

Guarda il videomessaggio di Brook al Teatro Valle Occupato (2013)

 

Peter Brook in numeri è almeno 60 produzioni teatrali, 8 film, 5 regie di opere liriche, 6 libri e 30 importanti riconoscimenti da tutto il mondo. Un uomo che odiava pensare a sé come ad un guru. Un artista poliedrico, un uomo curioso e felino, spirituale e profondo, genialmente unico.

Ci piace ricordarlo ascoltando ancora una volta il videomessaggio che nel 2013 mandò agli artisti asserragliati nel Valle occupato, per impedire che si chiudesse quel gioiello di teatro per trasformarlo in un supermercato. «Anche nella più funesta e drammatica delle situazioni, è una menzogna dire che non si possa fare nulla. C’è sempre qualcosa, ma richiede coraggio. Il teatro lo merita. Si occupa di vita, quella vera. Trasforma una massa informe di persone in una tensione in cui c’è una messa a fuoco. Si va oltre l’ordinario. Per questo si esce dal teatro cambiati, ricevendo qualcosa che prima non avevi». E questo è sempre stato vero dopo aver visto i suoi spettacoli. Adieu, mister Brook, bon voyage.

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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