L’uomo sotto il cappello di feltro

Joseph Beuys è stato un pittore, scultore e performance artist tedesco (Foto: needpix.com)

Diceva Ezio Bosso che l’esperienza della felicità per lui era una sorta di maniglia alla quale aggrapparsi per tirarsi su nei momenti difficili. Probabilmente di maniglie del genere oggi ne abbiamo bisogno un po’ tutti. Maniglie che non siano per forza legate a ricordi felici, ma che sappiano riportarci alla mente le motivazioni più oneste emerse in noi durante la quarantena.

 

Guarda l’intervista di Domenico Iannacone a Ezio Bosso

 

Agganci mentali che ci aiutino a non sbandare ora che siamo tornati per strada. Perché ogni rinascita ha bisogno dei suoi amuleti e dei suoi simboli e non esiste rito di passaggio che non consegni, anche solo sotto forma di immagine mentale, un simbolo in cui sia concentrato il valore e la memoria di quel passaggio. Per Joseph Beuys questo simbolo fu un cappello di feltro.

Il rischio dell’inverno

Nato a Krefeld in Germania nel 1921, Joseph Beuys crebbe in pieno nazismo e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu arruolato nell’aviazione. Era il marzo del 1944 quando il suo aereo si schiantò al suolo in Crimea. A marzo si sa, arriva la primavera, ma certo in Crimea le temperature non sono miti. Così la primavera che ebbe inizio in quel mese fu per il giovane Joseph una primavera interiore, la gemma di una nuova vita.

 

Guarda  Joseph Beuys durante una sua performance

«Farsi primavera significa accettare il rischio dell’inverno», aveva scritto solo qualche mese prima il suo collega con la divisa di un altro colore, Antonie De Saint-Exupeéry.

E il rischio dell’inverno Joseph Beuyes l’aveva sperimentato sulla sua pelle, perché nel deserto dei tartari stava morendo assiderato. Il rischio dell’inverno e della morte, lo vivevano ogni giorno i soldati sul fronte e i piloti nei cieli, una morte che uccideva prima di tutto l’umanità di ogni militare. È da questo inverno interiore, fatto di guerra e di disvalori, che ha inizio la primavera dell’artista tedesco.

Il piccolo principe e lo sciamano

Invece di un piccolo principe venuto dalle stelle nel deserto Joseph Beuys incontrò uno sciamano tartaro. Questa la storia un po’ romanzata dallo stesso artista che amava raccontarsi arricchendo le sue esperienze con immagini mentali. Dopotutto da quella esperienza Joseph Beuys aveva bisogno di portare con sé il talismano della sua rinascita, un simbolo potente che gli rammentasse l’esatto momento in cui dalla morte dell’inverno la corteccia del suo essere aveva iniziato a spaccarsi per lasciar uscire le gemme. 

I tartari lo cosparsero di grasso e lo ricoprirono di pelli e feltro. Poi lo curarono con erbe, radici e riti sciamanici. Ripreso dall’inverno e guarito, Joseph Beuys sarà pronto alla sua nuova vita e se la costruirà addosso con attenzione, creando prima di tutto i dettagli, tra cui il suo famoso cappello di feltro, ai quali aggrapparsi per restare fedele alla nuova immagine di sé.

 

Guarda il documentario su Joseph Beuys e lo sciamanismo

 

 

L’incontro con lo sciamano tartaro che lo aveva traghettato verso il nuovo Beuys resterà impresso nella memoria e nel lavoro dell’artista, proprio come l’incontro con il Piccolo Principe fatto da De Saint-Exupeéry. Il pilota francese volerà tra le stelle pochi mesi dopo, lasciandoci in eredità l’incanto dello sguardo di chi sa riconoscere «un boa che digerisce un elefante». Il pilota tedesco invece riprenderà il suo percorso sulla Terra, inoltrandosi tra i boschi, incantato dalle forme delle foglie.

Grasso, feltro e Ginkgo biloba

Grasso e feltro restarono due elementi cari alla poetica dell’artista tedesco che mosse la sua ricerca espressiva seguendo un percorso metaforico e archetipico, fatto di relitti, feticci e simboli mitologici. Il regno della natura e soprattutto quello della botanica diventarono la materia principale del suo lavoro.

 

Ogni foglia nella sua forma custodiva un segreto e Joseph Beuys fu capace di perdersi nelle nervature e nei cromatismi del mondo vegetale, alla ricerca di codici simbolici da decifrare. Esemplare tra i suoi studi è l’attenzione che l’artista dedicò alla foglia di Ginkgo biloba, riconoscendo in essa un segreto arcano visibile solo a chi sarebbe stato in grado di andare oltre l’apparenza delle cose: il segreto dell’unità nella dualità.

Un approccio mistico alla botanica

Interrogandosi sui disegni della natura e la loro ancestrale simbologia, Joseph Beuys ricercherà l’essenza stessa dell’universo nascosta in codici segreti. È innegabile l’influenza di Goethe in questa sua ricerca. La Natura, per Beuys come per Goethe, è un unico organismo vivente che si evolve attraverso l’alternanza di sistole e diastole, ossia di momenti di concentrazione e implosione e momenti di espansione ed esplosione, esattamente come il respiro e il battito cardiaco. Entrambi hanno un approccio mistico alla botanica e vanno ricercando simboli e archetipi nei disegni della Natura, come se fossero messaggi in codice lasciati dal divino alla coscienza umana.

«Il Vero è simile al Divino – aveva scritto Goethe nei suoi Detti in Prosa – Non appare mai immediatamente. Dobbiamo indovinarlo dalle sue manifestazioni».

La rivoluzione siamo noi

Se il ritiro presso gli sciamani tartari può essere visto come una sistole nella biografia dell’artista tedesco, la sua nuova vita sarà poi una potente diastole, un’espansione a livello sociale. Sotto il motto «La rivoluzione siamo noi», l’artista inaugurò la sua prima personale in Italia nel 1971. L’esperienza fu una potente diastole che lo portò ad abbracciare importanti scelte ecologiste e a dar vita al movimento dei Verdi in Germania. Questo movimento di apertura verso il sociale e di slancio verso il futuro è evidente nella sua ultima imponente opera, una creazione che l’artista stesso decise di consegnare alle mani della Natura, consapevole che i tempi dell’uomo non avrebbero potuto ultimarla.

 

Beuys durante la presentazione di 7000 querce
Nel 1982 Joseph Beuys viene invitato a partecipare a “Documenta” che si tiene a Kassel ogni cinque anni, in quell’occasione presentò l’opera “Le 7000 querce”

 

Si tratta di 7000 querce, un lavoro creato per l’edizione del 1982 di Documenta, l’importante manifestazione d’arte internazionale che si teneva a Kassel, nell’Assia settentrionale, ogni cinque anni. Davanti al Museo Federiciano pose un grande triangolo formato da 7000 pietre di basalto. Ogni pietra poteva essere adottata attraverso una donazione privata. Il ricavato di ogni donazione permetteva di acquistare una giovane quercia. L’ultima quercia fu piantata nel 1987, un anno dopo la morte dell’artista, ma l’opera per dirsi completata dovrà veder passare 300 anni, durante i quali sarà la Natura a trasformare i giovani alberi in un bosco di 7000 querce.

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Dafne Crocella
Dafne Crocella
Dafne Crocella è antropologa e curatrice di mostre d’arte contemporanea. Dal 2010 è rappresentante italiana del Movimento Internazionale di Slow Art con cui ha guidato percorsi di mindfulness in musei e gallerie, carceri e scuole collaborando in diversi progetti. Insegnante di yoga kundalini ha incentrato il suo lavoro sulle relazioni tra creatività e fisicità, arte e yoga.
Da sempre attiva su tematiche ambientali e diritti umani, convinta che il rispetto del proprio essere e del Pianeta passi anche dalla conoscenza, ha sviluppato il progetto di Critica d’Arte Popolare, come stimolo e strumento per una riflessione attiva e consapevole tra essere umano, contemporaneità e territorio. È ideatrice e curatrice di ArtPlatform.it, piattaforma d’incontro tra creativi randagi.

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