Inclusione è ampliare lo sguardo. Addio ad Andrea Canevaro, padre della pedagogia speciale
Contrastò pregiudizi e diseguaglianze verso gli alunni con disabilità. Comprese che “fare spazio” all’Altro nella scuola richiede una revisione di ruoli, prassi e definizioni. Nella sua visione, è la società a ridurre l’individuo con handicap al suo solo deficit, mentre includere è cogliere l’identità dinamica, plurale e aperta di ogni persona. È scomparso lo scorso 26 maggio
«A chi deve guardare e a chi deve rispondere chi educa e si educa? A un ministro o a chi cresce? A chi cresce. E deve farlo guardando oltre, avanti, cioè non fermandosi a quello che ora vede, non a quello che chi cresce è; ma aprendosi al domani, a ciò che sarà. È la dimensione “profetica” (don Lorenzo Milani) propria dell’educazione».
Correva l’anno 2008 e la ministra Gelmini aveva appena presentato l’ennesima riforma politica della scuola. In nome del rigore, dietro gli annunci e le smentite, ancora una volta – ma negli anni successivi non sarebbe andata meglio – trapela una visione della scuola fatta di economie presunte, autorità, voto in condotta e sostanziale bocciatura per docenti a studenti. Gli anni della Dad, ora ribattezzata Did, delle mascherine, della scuola punita e vessata erano lontani, ma Andrea Canevaro aveva capito che l’orizzonte stava cambiando e decise di dimettersi dall’Osservatorio per l’integrazione scolastica del ministero della Pubblica istruzione.
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Un gesto di rottura, di discontinuità e di coerenza. Uno dei tanti della sua intensa biografia. Filosofo, pedagogista, padre della scuola inclusiva, Canevaro il 26 maggio scorso è morto a Ravenna. Aveva 82 anni e la sua vita, la sua dedizione, il suo lavoro hanno lasciato un segno profondissimo nella nostra società e nella nostra cultura.
Un uomo schivo e gentile, battagliero e disinteressato al potere, totalmente assorbito dalla sua missione professionale, era nato a Genova nel 1939, ma è in Emilia-Romagna che si trasferisce presto, entrando in contatto con il territorio e le istituzioni. Si era laureato in Filosofia e con una borsa di studio che lo porta a Lione inizia ad occuparsi di ritardo mentale nell’infanzia grazie al professor Claude Kohler. Tornato in Italia, diventa educatore nel settore della devianza giovanile per poi avviare la sua fortunata carriera accademica. Nel 1980 è professore ordinario della cattedra di Pedagogia speciale all’Università di Bologna dove sarà poi nominato preside e professore emerito. Collabora con le università di Montréal e Lione, è autore prolifico e premiato, direttore editoriale di riviste sull’educazione, l’handicap e l’interculturalità.
Canevaro diventa ben presto anche a livello internazionale colui che, come ha ricordato in questi giorni il collega Roberto Farné:
«Ha aperto in Italia la strada della pedagogia speciale come disciplina, come campo dell’educazione che è diventato campo di ricerca e sperimentazione. Un pedagogista con un tratto umano straordinario. Ovunque ci sia un’educazione difficile, lui se ne occupava: era un punto di riferimento».
Per questo lo chiamano anche all’estero, in ripetute missioni di cooperazione internazionali nella penisola balcanica, dove operò per la tutela e il reinserimento di minori con disabilità in Bosnia-Erzegovina, e, ancora, nella regione africana dei Grandi Laghi, in Bielorussia e in Cambogia.
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Negli anni in cui in Italia finalmente la legge Basaglia poneva fine all’epoca dei manicomi, Canevaro cominciò ad assediare il castello dei pregiudizi e delle diseguaglianze cui erano costretti tutti gli alunni con disabilità. E’ la sua straordinaria visione dell’individuo con handicap a guidarlo: tanto più la società continua a percepirlo nell’assolutezza del deficit, riducendo la persona alla disabilità, utilizzando tutte le tecniche che possono renderla il più possibile conforme alla “normalità”, quanto meno viene colta l’identità “plurale”, non statica del disabile, l’identità aperta ad accogliere sempre nuovi elementi. Diceva:
«Quando arriva un soggetto non diagnosticato o con diagnosi non chiara; un soggetto particolare per i comportamenti o per la cultura di provenienza, chi educa deve essere contento. È come quando in un villaggio sperduto arrivava un viaggiatore, uno straniero, che portava novità e notizie, anche difficili da capire. Benvenuto l’imprevisto!».
E grazie al lavoro accademico e a quello sul fronte istituzionale e legislativo, si arrivò nel nostro paese a chiudere le classi “speciali”, le “differenziate” per permettere ai bambini con handicap di frequentare le aule “normali”. Non è solo un aggiustamento spaziale. “Fare spazio” all’ “altro” in classe comporta una revisione profonda e una messa in discussione della prassi pedagogica, del ruolo del docente, dei valori culturali, della definizione identitaria e delle capacità relazionali. Una rivoluzione, insomma, che non può certo dirsi conclusa.
Guarda l’intervento di Andrea Canevaro nel simposio “L’illusione della normalità” (2016)
Perché misurarsi con la diversità coinvolge ognuno di noi nel fondamento del proprio essere, nei pregiudizi, nelle paure profonde, nelle barriere che abbiamo costruito per proteggerci. Guardare all’altro senza accoglierne la ricchezza e la luce, mette a nudo la disabilità dell’ambiente, la malattia della società, gli ostacoli culturali, politici, economici alla solidarietà e all’ecologia della convivenza.
L’handicap che Canevaro aveva studiato, accompagnato e difeso per tutta la vita, era diventato esperienza diretta da quando un’emorragia cerebrale ne aveva compromesso le percezioni spazio-temporali. Commentò in una rivista che da allora metteva al centro di ogni anno una parola. L’ultima? Operosità. «Per me la comunità educante è mettere in moto le operosità, vuol dire riconoscere che ognuno ha qualcosa in cui è capace e allo stesso tempo che nessuno può bastare a se stesso. Ognuno può essere operoso a suo modo, mettere in moto qualcosa che può servire ad altri. Questo è lo scopo principale della comunità educante, non far vivere nessuno in una posizione assistenziale, uscire dalla logica di chi ha e chi non ha, chi ha sapienza e chi è sciocco, chi è bene educato e chi è maleducato. Non insegnare a vivere a qualcuno, ma imparare a vivere insieme».
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Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti. Svolge attività di formazione sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione.
Giornalista professionista e scrittrice dal 1992, il suo ultimo libro è "Le mani in movimento" (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
E’ vice-presidente di Direttamente ets che sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
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