Pacifismo al muro, la Street Art fra divulgazione e autopromozione

Opere di Bansky sul muro della striscia di Gaza, di fronte al Wall Off Hotel (Foto: Wikimedia)

Pacifismo al muro, la Street Art fra divulgazione e autopromozione

L’arte che raggiunge più pubblico a volte corre il rischio di passare attraverso gli stessi percorsi che denuncia. Una scelta di integrità rischia, invece, di lasciare opera e messaggio a portata di pochi. Una dinamica in precario equilibrio, anche quando l’arte sposa cause importanti, come la pace

A volte è solo una scritta sgocciolata comparsa improvvisamente dopo una notte, altre volte si tratta di lavori che ricoprono con maestria grandi muri, altre ancora sono piccoli stikers, o poster… Spesso i muri delle nostre città hanno la capacità di restituirci il sentire del popolo, le sue percezioni riguardo eventi di attualità, la sua volontà. Purtroppo altrettanto frequentemente questa volontà è lontana dalle scelte della politica dei Palazzi e ci lascia riflettere su quanta strada ancora abbia da percorrere la democrazia affinché la volontà e il sentire dei più si traduca in azioni di governo. Questo è particolarmente evidente con le guerre che mai rispecchiano la volontà di un popolo, ma che sempre e inevitabilmente portano conseguenze più o meno immediate che su esso ricadono.

Guardare il brutto senza diventarne complici

La pace è un tema che più volte è stato affrontato, oltre che da anonimi scrittori di muri, anche da noti street artists, spesso sottolineando implicitamente le conseguenze nefaste delle guerre.

Oggi, in questa rubrica dedicata alla street art, scegliamo di uscire dall’Italia e portare lo sguardo su un muro speciale. Un muro legato a una lunga storia di guerre, sopraffazioni e violenze, forse a livello geopolitico uno dei muri più carichi di sofferenza: il muro della Striscia di Gaza.

 

Il Walled Off Hotel di Banksy di fronte al muro di Gaza (Foto: Flickr)

 

Lo facciamo in questi giorni in cui imperversa la guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra che inevitabilmente ci porta a riflettere su quelle zone di confine che, più che geografico o linguistico, segnano confini politici, culturali e ideologici. Questo non per sminuire quanto sta avvenendo in Ucraina, ma per mantenere alta la consapevolezza dell’importanza di uno sguardo su quanto avviene nel contemporaneo sempre, anche quando è geograficamente o culturalmente lontano da noi. Così in questa rubrica, che è una finestra sull’arte e sul bello, ci sentiamo di spostare lo sguardo e raccontarvi la storia dell’hotel con la vista più brutta del mondo. Perché a volte è necessario soffermarsi sul brutto, su ciò che ci crea dispiacere, su ciò da cui sentiamo l’esigenza di prendere le distanze. Ma nel farlo è al tempo stesso importante capire come restare lucidi e rispettosi di fronte a ingiustizie e sofferenza.

Il Walled Off Hotel

Si chiama Walled Off Hotel ed è una creazione dell’ormai celebre e quotatissimo street artist Banksy, l’hotel che affaccia direttamente sul Muro di Gaza. Aperto nel marzo 2017 ha avuto un crescente successo specialmente tra ricchi collezionisti amanti dell’artista, intellettuali occidentali legati alla questione palestinese, e turisti alla ricerca di nuove esperienze.

 

Il Walled Off Hotel all’interno (foto: Flickr)

 

L’hotel è composto da 10 camere che vanno dalla stanza Buget, arredata con oggetti in eccedenza da una caserma militare israeliana, letto singolo e bagno in comune, all’elegante suite Presidential contenente «tutto ciò che richiederebbe un corrotto capo di stato» con vasca da bagno «per quattro festaioli», home cinema, e fontana con zampilli provenienti da un serbatoio crivellato dai proiettili. Grandi attrazioni dell’hotel sono i tour lungo il muro alla scoperta di celebri lavori di street art, e i workshop artistici a cui i turisti possono partecipare acquistando pacchetti di stencil e colori con cui lasciare un loro segno sul muro. Mentre tutte le stanze sono arricchite da opere di Banksy, di Sami Musa e Dominique Petrin.

Un vero e proprio museo che porta inevitabilmente a riflettere sulla contraddizione tra il lusso di chi prende le decisioni, e le guerre subite dai popoli.

Se da un lato il Walled Off di Banksy ha ricevuto molti elogi dalla comunità internazionale per la sua iniziativa di attirare turisti in Cisgiordania ed educali attraverso un utilizzo dello spazio come mezzo e oggetto d’arte, non sono mancate le critiche al prevedibile processo di gentrificazione che la sua costruzione ha messo in atto e alla evidente facilitazione di un turismo di guerra. Impossibile non percepire un fastidioso senso di decontestualizzazione nel leggere i feed sull’hotel che apprezzano la «location fantastica», o la descrizione del sito di Booking che assicura agli ospiti «un’immersione nell’originale atmosfera dell’albergo e nello storico scenario circostante».

Bansky e la questione palestinese

 

Una riproduzione del “Lanciatore di fiori” di Banksy ad Atene (Foto: Flickr)

 

L’hotel è nato dopo una serie di interventi artistici di Banksy che, arrivato per la prima volta in Cisgiordania con l’organizzazione londinese Pictures on Walls nel 2007, è poi tornato diverse volte nei territori con l’intento di portare all’attenzione internazionale i soprusi e le discriminazioni che stava subendo il popolo palestinese. Nei lavori di Banksy, e di molti street artist, l’ambiente è parte integrante del messaggio dell’opera, contestualizzandolo e potenziandolo. Per questo il Muro della Striscia di Gaza costruito nel 2002 con i suoi 750 km di cemento armato e fil di ferro, che dal nord della città palestinese di Tulkarem si estende fino a sud di Betlemme, passando per Gerusalemme, è oggi la principale tela dell’artista in Cisgiordania. Oltre a diversi trompe-l’œil aperti su immaginari paradisi al di là del muro, sulla sua superficie troviamo opere diventate celebri quali “La colomba corazzata” dove l’iconico uccello della pace per portare il suo messaggio nei territori occupati è costretto a indossare giubbotto antiproiettile; o “Il lanciatore di fiori” che ritrae un giovane rivoluzionario con il volto coperto nell’atto di lanciare un mazzo di fiori; o la rivisitazione della famosa “Balloon Girl” che ritrae la nota bambina nell’atto di superare il muro volando appesa a un mazzo di palloncini.

Il pacifismo di Banksy è caratterizzato da un’attenzione a chi la guerra la subisce. Nei suoi lavori emergono donne e bambini, ma anche soldati, che in un’ottica che non può non riportarci in mente la Guerra di Piero cantata da De Andrè, appaiono come involontarie pedine di un conflitto che non hanno voluto.

balloon girl
Una “Balloon girl” sul muro nella località di Kalandia (Foto: Wikimedia)

Giochiamo alla guerra?

Prime tra tutte scuotono la sensibilità dell’osservatore le immagini di bambini intenti a giocare in contesti di guerra. L’ingenuità, la spontanea fiducia verso la vita, la fantasia del gioco si scontrano con strumenti bellici. Con Banksy sono molti gli street artist che da anni portano l’attenzione su queste tematiche. Ricordiamo qui il tedesco Alias con il suo “Bambino seduto su una bomba”, o la bambina con la bambola e la pistola dell’australiano Camo, immagini che colpiscono e ci riportano alla mente le foto di bambine e bambini ucraini con armi in mano, che in questi giorni purtroppo compaiono incessantemente sui social. I minori in contesti di guerra sono un tema non certo nuovo agli attivisti dei diritti umani, che trova la sua peggior espressione nella forma dei bambini soldato, là dove l’incoscienza del gioco viene brutalmente strumentalizzata da un mondo adulto culturalmente militarizzato e del tutto privo di scrupoli di coscienza.

Come occidentali privilegiati abbiamo senza dubbio la responsabilità quanto meno di interrogarci sul rapporto tra svago e tragedia, rapporto che indiscutibilmente emerge in tutte le dinamiche del turismo di guerra (o di macerie, come si è visto nel post sisma amatriciano) ma anche nella costante ricerca di un’informazione sensazionalista.

 

Seguendo queste riflessioni torniamo a Roma, dove l’artista venezuelana Za Tox risponde sorridendo alla mia domanda se avesse fatto qualche lavoro per la pace in questi giorni: «No, non uso le cause per farmi promozione!». Atteggiamento radicalmente opposto a quello dello street artist di Bristol. Inevitabilmente si apre una riflessione sul delicato equilibrio tra informazione e sensazionalismo, ma anche tra un’integrità intellettuale che ci porta inevitabilmente a restare chiusi nella nostra nicchia e una divulgazione che, nel raggiungere il maggior numero di persone, finisce col dipendere dagli stessi strumenti verso i quali muove la sua critica.

Saperenetwork è...

Dafne Crocella
Dafne Crocella
Dafne Crocella è antropologa e curatrice di mostre d’arte contemporanea. Dal 2010 è rappresentante italiana del Movimento Internazionale di Slow Art con cui ha guidato percorsi di mindfulness in musei e gallerie, carceri e scuole collaborando in diversi progetti. Insegnante di yoga kundalini ha incentrato il suo lavoro sulle relazioni tra creatività e fisicità, arte e yoga.
Da sempre attiva su tematiche ambientali e diritti umani, convinta che il rispetto del proprio essere e del Pianeta passi anche dalla conoscenza, ha sviluppato il progetto di Critica d’Arte Popolare, come stimolo e strumento per una riflessione attiva e consapevole tra essere umano, contemporaneità e territorio. È ideatrice e curatrice di ArtPlatform.it, piattaforma d’incontro tra creativi randagi.

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