Nico Piro a Kabul nel 2009

Nico Piro a Kabul nel 2009. Il giornalista è autore del recente Maledetti pacifisti, edito da People (Foto: Flickr)

A un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, martedì 28 febbraio alle ore 18, presso la Biblioteca comunale di San Matteo degli Armeni di Perugia, avrà luogo la presentazione del volume Maledetti pacifisti (People 2022), di Nico Piro. L’autore dialogherà con Emanuela Costantini, storica contemporanea dell’Ateneo perugino, Gabriele De Veris, responsabile della sopraddetta biblioteca, Giuseppe Moscati, presidente della Fondazione Capitini, e colui che scrive. La scelta del luogo non è casuale: nella biblioteca si conserva non solo il Fondo librario di Aldo Capitini, il filosofo pedagogo a cui si deve l’istituzione nel 1961 della Marcia della Pace Perugia Assisi, ma anche la bandiera originale della Marcia stessa. In attesa dell’incontro, abbiamo conversato con Nico Piro attorno al suo libro. 

 

Nico Piro con i libri di cui è autore
Nico Piro presenterà il suo ultimo libro, Maledetti pacifisti, alla Biblioteca di San Matteo degli Armeni di Perugia il 28 febbraio (Foto: Domenico Giannantonio)

        

La frase chiave per comprendere il tuo Maledetti pacifisti è, a mio avviso, «Se vuoi la pace, conosci la guerra», e con una leggera variazione «Se vuoi la pace, impara a conoscere la guerra». Il riferimento esplicito è al motto latino «Si vis pacem, para bellum». La tua modifica al testo originale dipende dalla diretta esperienza della guerra, o già prima pensavi qualcosa di analogo?
È difficile mettere in dubbio una frase del genere senza aver visto davvero il volto della guerra, perché quelle sono parole che “funzionano”, coniugando il fascino della forza alla pace. È una frase che da secoli affascina i guerrieri (che si sentono così ancor di più nel giusto) e i pacifisti (che finalmente si sentono più non dei deboli vigliacchi). Ma rispetto a duemilacinquecento anni fa tante cose sono cambiate, dagli antibiotici al motore a scoppio. E allora che senso ha continuare a ripeterci «Si vis pacem para bellum»? Come reagireste se all’ospedale vi prescrivessero salassi o altri rimedi della medioevale Scuola Medica Salernitana?

Chiunque conosca la guerra non può, in tutta onestà, pensare che il conflitto armato possa risolvere i problemi.

E allora se vogliamo diffondere cultura di pace, forse è il caso di non parlare solo di grandi (spesso eterei principi) ma degli orrori dei conflitti e della macchina che li alimenta.

Mi ha colpito molto quanto scrivi sulla “narrazione” della guerra: «Nei paesi occidentali la libertà di stampa non è compressa quanto in Russia o in Cina, ma ciò non significa che il potere lasci il controllo dello spazio informativo ai giornalisti. La libertà di stampa costringe chi comanda a ricorrere a strumenti molto più sofisticati della propaganda per guidare l’opinione pubblica e consolidare il proprio consenso. In sintesi, il potere ha bisogno di costruire una narrazione». Quanto incide sulla narrazione l’asse geopolitico al quale si appartiene, e quale libertà ha l’inviato di fornire notizie non allineate?
La guerra si basa sulla costruzione del nemico e sulla santificazione dell’amico (l’alleato esterno o l’eroe militare, l’amatissimo leader interno). Se non hai un nemico da odiare, se non ti convinci che uccidendolo risolverai tutti i tuoi problemi, perderebbe senso il tuo supporto alla guerra. Raccontato così sembra un meccanismo bolso e anche facile da smontare, eppure sulla caccia a Bin Laden abbiamo poggiato le fondamenta dell’invasione dell’Afghanistan. Bin Laden l’abbiamo poi trovato a pochi passi dalla più importante accademia militare pakistana. È stato ucciso ma Al Qaeda non è mai stata forte come oggi.

È chiaro che i due termini incatenati della formula bellica amico-nemico sono variabili e non solo perché a seconda delle convenienze derubrichiamo gli amici a nemici, è una questione di bussola. A seconda da quale versante guardiamo ad un conflitto, gli amici diventano nemici e viceversa.

Quando incontravo i comandanti talebani in clandestinità a Kabul sottolineavano che loro erano stati invasi, che loro erano rimasti a casa loro, che la guerra era colpa dell’invasore americano. Una versione completamente opposta rispetto a quella degli americani che raccontavano invece di una guerra di liberazione. La forza di un giornalista è sapersi inserire in queste contraddizioni/opposizioni con l’obiettivo di aiutare la comprensione di chi sta a casa. Per chiarire comunque la posizione di un giornalista alle prese con una notizia, sgradita o meno, credo che valga sempre ricordare che la carriera di un reporter viene definita dai no che pronuncia.

Come scrivi più volte nel volume la guerra è difficile da raccontare per via della propaganda e della disinformazione. Quanto pesa questa realtà quando realizzi un servizio?
Pesa enormemente se ti convinci di essere non un semplice testimone ma un portatore di verità che è invece la prima vittima della guerra, come ci ricorda la frase attribuita ad Eschilo. È parte delle difficoltà da affrontare se invece eserciti il dubbio e lo comunichi a chi sta a casa. Non dici che «è accaduto» ma che «è la versione che il governo di X fa circolare contro Y» e magari ne spieghi anche le conseguenze politico economiche. In questi casi – ecco cosa voglio dire – alle persone non va raccontata una verità che non esiste ma dati gli elementi che siamo riusciti a raccogliere lasciando loro la possibilità di rifletterci sopra.

Nel libro hai creato l’acronimo Pub (“Pensiero Unico Bellicista”), motivo per cui sei spesso attaccato nei social. Sulla base della tua esperienza, che opinione ti sei fatto dei social? Possono essere utili come strumento per comunicare una “narrazione” alternativa, o si limitano a propalare solo fake news?
Ragioniamo in via ipotetica, se un giornalista fosse stato oscurato dal suo giornale quarant’anni fa cosa gli sarebbe rimasto da fare oltre che chiedere l’applicazione dell’articolo del nostro contratto che ti accompagna all’uscita per dissenso rispetto alla linea editoriale? Nulla. Non avrebbe avuto alternative. Oggi invece i social ti offrono spazi per continuare ad esistere, sempre ragionando nell’ipotesi che si faceva sopra. Nell’ambito di scenari più ottimistici, per un giornalista i social sono l’occasione di diffondere ulteriormente il suo lavoro e per raggiungere chi non guarda la tv o non legge i giornali. I social sono un’occasione e un pericolo, per quello che il singolo può fare credo conti lo sforzo per renderli un posto migliore. Per il resto di fronte a giudici oberati di lavoro, personale inquirente spesso non formato per affrontare il crimine 2.0, unità specialistiche di polizia senza mezzi e personale, social che traggono profitti dalle risse, continuo a pensare che solo l’istituzione di una cyberprocura può aiutarci a fermare le manovre di manipolazione della conversazione pubblica che stanno avvelenando i social e quindi la nostra democrazia.

La guerra in Ucraina ha fatto esplodere il «paradosso per cui una società democratica invoca la censura di coloro i quali accusa di gestire un Paese anche usando censori di Stato». Augurandoci che questa guerra finisca presto, intravedi la possibilità che si possa tornare indietro rispetto a quanto scrivi?
In questo anno post-invasione, abbiamo legittimato posizioni e ragionamenti un tempo impossibili anche solo a bassa voce.

Abbiamo trasformato i neonazisti di Azov in lettori di Kant e cultori dell’arte orientale antica. Abbiamo sdoganato l’uso quotidiano di “traditore” e “complice del nemico” per diffamare e depotenziare chi si oppone alla guerra.

Siamo arrivati a definire terrorista il popolo russo (quindi anche quelli arrestati durante le manifestazioni per la pace o Navalny?). Temo che rotto quest’argine non si riuscirà più a ricostruirlo, la pressione dell’acqua è troppo forte, soprattutto in assenza di una sinistra (nominale, istituzionale, chiamatela come vi pare) che è ormai sovrapponibile alla destra sul tema guerra e pace.

 

Nico Piro a Kabul nel 2009
Si può fare giornalismo aldilà di stereotipi e banalità. Per Piro «la carriera di un reporter viene definita dai no che pronuncia» (Foto: Flickr)

 

A tuo avviso, la crisi economica ed energetica, che stiamo iniziando a sperimentare, sta apportando modifiche alla narrazione della guerra?
La narrazione del conflitto sta già cambiando e qui invito tutti ad osservare un minuto di silenzio per gli opinionisti con l’elmetto che sulla guerra non ne hanno preso una. Il cambiamento completo accadrà cinque minuti prima che la Casa Bianca renderà pubbliche le sue mosse per un accordo negoziale, che non solo Maledetti Pacifisti ma (un anno dopo) anche il capo di Stato maggiore Usa Milley considera come unica soluzione al conflitto. I tamburini del Pub sono stati lasciati giocare sinora spacciandoci la folle idea che questa guerra si concludesse solo alimentandola con altra guerra. A breve dovranno usare il loro moderatismo e la loro arte elistica per piazzare il prodotto pace dopo aver provato disperatamente a piazzarci la guerra. Attendo quel momento sorridendo non perché assistere a quelle giravolte sarà puro ed esilarante cabaret ma perché finalmente la gente avrà smesso di crepare in mezzo alle bombe.

Un’ultima domanda: ritieni che in un prossimo futuro la Ue possa avere un ruolo come mediatrice nelle trattative di pace, o l’invio delle armi e le sanzioni hanno precluso totalmente questa possibilità?
La vera domanda che dovremmo porci è se domani esisterà ancora l’Unione Europea, con una Germania indebolita dal bullismo politico dell’Ucraina oltre che dalle pressioni Usa, e i paesi di Visegrad (al netto dell’Ungheria, de facto espulsa) che ormai paiono essere la vera colonna decisionale europea. È l’antico progetto Rumsfeld che si sta dispiegando, complice l’inconsistenza di una farsesca classe dirigente dell’Unione. Ovviamente gli europeisti che considerano l’UE come uno strumento meramente bellicista sono tali solo sin quando l’Europa vogliono usarla non quando si tratta di salvarla.

 

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Carlo Pulsoni
Carlo Pulsoni
Carlo Pulsoni insegna Filologia romanza presso l'Università degli Studi di Perugia e coordina la rivista Insula europea. Tra i suoi sogni nel cassetto c'è la panchina dell'Inter o in alternativa la conduzione di un treno regionale.

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