La Nave-Asilo Caracciolo, con Giulia Civita Franceschi circondata dai "Caracciolini" in divisa

La nave Caracciolo, scuola di mare che salvò gli scugnizzi

La nave-asilo attraccata al porto di Napoli in quindici anni tolse dalla strada e diede una formazione e una “famiglia” a settecentocinquanta bambini. In questo avvio di anno scolastico, tra casi di cronaca drammatici, un modello da ricordare

Centodieci anni fa, nel settembre del 1913, iniziava a Napoli, un anno scolastico molto speciale. Ormeggiata al Molosiglio, nello specchio d’acqua del primo bacino di carenaggio costruito in Italia, la pirocorvetta in disarmo “Francesco Caracciolo” stava per diventare la Nave-Asilo che in quindici anni, fino al 1928, avrebbe strappato alla fame e alla violenza settecentocinquanta orfani, bambini di strada poverissimi e spesso abusati. Entravano sul veliero laceri, uscivano piccoli marinai, pescatori, allevatori di mitili, meccanici, falegnami, qualcuno divenne ufficiale, uno professore di greco al liceo e un altro sacerdote, ma tutti, indistintamente, si salvarono dalla delinquenza e dall’ignoranza per aver conosciuto, negli anni della scuola, la solidarietà e la responsabilità, la dignità e l’accoglienza.

 

Giulia Civita Franceschi con cinque bambini a bordo della nave-asilo

 

Dopo Pomigliano e Caivano, mentre quattrocento agenti e un decreto contro la “stesa” che poche notti fa ha terrorizzato il quartiere di Parco Verde mettono in scena l’ennesimo braccio di ferro tra malavita e Stato, all’indomani delle violenze aberranti che Don Patriciello, in agosto, adduceva all’ «aver abdicato alla fatica di educare», torna in mente la forza di un’impresa educativa potente e quasi sconosciuta, quella di Giulia Civita Franceschi e dei suoi “Caracciolini”, bruscamente interrotta dal fascismo divenuto ormai regime che nel ’28 la esautorò dalla direzione per inserire la scuola nell’Opera Nazionale Balilla. Una protervia che impedì, tra l’altro, l’avvio di un’altra nave scuola destinate alle bambine.

La Montessori del mare

«All’arrivo sulla nave, la signora Giulia scattava una fotografia per ogni bambino. Erano laceri, denutriti, dall’aspetto malsano, ‘naufraghi’ lei li chiamava», raccontava Maria Antonietta Selvaggio dell’Università di Salerno, profonda conoscitrice della Caracciolo, in occasione della mostra al Museo del Mare di Napoli, «e li fotografava nuovamente dopo che si erano perfettamente inseriti nella vita di bordo ed erano diventati bambini e ragazzi nuovi, orgogliosi della loro nuova divisa». La divisa arrivava dopo settimane di osservazione, “il periodo più importante”, diceva Giulia Civita, quello in cui si seminavano la fiducia e il senso di mutua responsabilità. I bambini erano liberi di muoversi e di scoprirsi, di cambiare pelle, mentre pian piano venivano introdotti alla disciplina e al lavoro, alla cura di sé, della nave, delle regole.

 

Guarda il video sulla Nave-Asilo Caracciolo

 

«A queste creature la nave donò una seconda nascita. Vi arrivavano laceri, pallidi, sperduti e vi ritrovarono il sorriso e, quasi sempre, la salute del corpo, insieme a quella dello spirito» raccontò Civita Franceschi nel 1947, al Congresso nazionale delle donne napoletane, quando le fu chiesto di descrivere il “metodo Civita” per riproporlo all’infanzia derelitta dell’immediato dopoguerra. «La famiglia, che non conoscevano, appariva ad essi come una improvvisa rivelazione. Dimenticarono prestissimo le vedute turpitudini, l’eloquio volgare della strada, e le qualità sopite di gentilezza e di bontà riaffiorarono, man mano che il corpo e il respiro rifiorivano in un ambiente che si intonava alla fanciullezza, sommersa da conoscenze intempestive o da pericolose libertà».

Ribaltare radicalmente lo stereotipo dello scugnizzo era il suo obiettivo.

Per portarlo a termine, la signora Giulia, nata nel 1870, figlia di un noto scultore toscano, moglie di un valente penalista, educatrice apprezzata da due donne influenti (la moglie di Nitti e la figlia di Giolitti) si trasferì stabilmente sulla nave insieme al figlio Emilio, prezioso collaboratore. Quella convivenza quotidiana fu sentita dai “Caracciolini” come un gesto di adesione assoluta e indimenticabile: al suo funerale, nel 1957, dopo gli anni silenziosi del fascismo e quelli operosi nell’UDI di Napoli, furono quattro dei suoi “marinaretti” a portare la bara e centinaia ad affollare la chiesa, per un ultimo omaggio a “mamma AEI”, come la chiamavano i più piccoli.

 

 

La sua opera pedagogica fu lodata e apprezzata da grandi personalità, a cominciare da Maria Montessori a cui Giulia fu spesso paragonata con l’appellativo di “Montessori del mare”, e da Édouard Claparède, oltre a numerosi esperti italiani e stranieri. Tra questi, una delegazione del ministero dell’educazione giapponese che importò in patria un’esperienza didattica ispirata proprio al “Metodo Civita”.

Una comunità ove imparare ad avere cura

Alla signora Giulia era chiaro che la “Caracciolo” non doveva essere solo una scuola di addestramento ai mestieri del mare e neppure soltanto un luogo dove apprendere a leggere, scrivere e far di conto, ma una comunità in cui ogni bambino veniva rispettato e visto nei propri bisogni, incoraggiato nelle attitudini, aiutato a crescere nel corpo come nei valori, in quella compresenza di bambini e ragazzi pronti ad aiutarsi e sostenersi che oggi si definisce learning peer to peer. Lei chiamava «educazione naturale» quel vivere insieme in una casa-nave sempre attraccata al porto:

per portarli a sentire il mare dentro, un mare redentore, senza premi né punizioni, attenti all’altro e all’ambiente – al futuro – proprio perché si è capaci di avere cura di sé stessi.

 

 

Lo racconta assai bene anche Antonella Ossorio nel suo I bambini del maestrale (Neri Pozza, 2023), ritratto attento e preciso, talentuoso e commovente degli scugnizzi della “Caracciolo” e della loro direttrice. Potrebbe essere il primo libro per celebrare l’anno scolastico appena iniziato. Un inno all’educazione che invece annaspa e fallisce, un modello a cui tornare per rifondare la trasmissione, come scriveva Bellamy ne I diseredati. Un gesto per ribadire che non sarà l’esercito, ma solo la cultura, l’educazione, la relazione, come la bellezza, d’altronde, a salvarci.

 

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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