«La mia poesia è un dono di acque, alberi e animali». Intervista a Juan Carlos Galeano

Juan Carlos Galeano, poeta colombiano, oggi pomeriggio a Roma sarà il protagonista di un evento speciale del Festival europeo di poesia ambientale

«La mia poesia è un dono di acque, alberi e animali». Intervista a Juan Carlos Galeano

Echi di leggende, storie antiche ai confini tra umanità, mondo animale e vegetale. In occasione dell’incontro di oggi a Roma, all’Università Antonianum per il Festival europeo di poesia ambientale, il poeta, traduttore e saggista colombiano ci racconta la sua Amazzonia, tra meraviglia e realtà

Leggere come piume, immaginifiche come i sogni d’estate, animate, quotidiane e cosmiche sono le poesie di Juan Carlos Galeano, ex bambino nell’Amazzonia colombiana, dalla quale i suoi genitori fuggirono per scampare alla guerra, professore alla Florida State University, poeta, saggista, regista e attivista. Oggi pomeriggio, nell’ambito del Festival europeo di poesia ambientale organizzato a Roma dalla società benefit Saperenetwork al fianco della Pontificia Università Antonianum, Galeano presenterà anche l’edizione italiana appena uscita per Del Vecchio Editore della sua raccolta Amazzonia. L’abbiamo incontrato davanti a tisana e biscotti, in un’intervista che è diventata il racconto di una vita, mentre il salotto cominciava a popolarsi di liane e alberi colossali, bambini che saltavano nel fiume limpido, spiriti delle acque, ricordi e creature fantastiche, suggellati da una promessa:

«Ti porto in Amazzonia a conoscere uno sciamano del Perù, mio grande amico».

Raccontare l’Amazzonia non è facile. Perché proprio la poesia?
Ho imparato dagli indios come raccontare una storia in modo che possa parlare a tutti, anche a quelli che non sanno leggere o scrivere. Con gli haiku mi sono esercitato a pulire la lingua, con un rigore parnassiano, direi. Sono stato e mi considero un attivista, ma nella poesia cerco solo la bellezza. Di ogni poesia nascono almeno cento versioni, ma non lo dico per lamentarmi della fatica di scrivere, anzi. Quando scrivo del fiume Yakumama, della cosmogonia di quei popoli, io torno laggiù, nel paradiso che è stata la mia infanzia. Queste poesie non mi appartengono, mi sono state donate dalle nubi, dalle acque, dalla natura. A me spetta solo lo sforzo di donarle a chi legge. Ogni poesia è una vacanza, un viaggio nel tempo, un mondo scomparso che riappare.

Nei primi anni Sessanta, lei ha vissuto, da bambino, al primo grande atto di devastazione dell’Amazzonia: disboscare la foresta per dare terra ai coloni e agli allevamenti. Che ricordi ha?
In piena guerra fredda, dopo la rivoluzione di Cuba, il terrore che altri paesi dell’America Latina potessero diventare comunisti spinse le multinazionali e gli Stati Uniti a regalare ettari di terra della foresta, sementi e dieci mucche a migliaia di famiglie poverissime, tra cui i miei genitori. Convinti di essere finalmente liberi, quei nuovi contadini cominciarono ad incendiare la foresta per seminare mais e riso e allevare qualche vacca. Tante mattine il fumo era così intenso che il sole spariva, si vedeva solo una piccola palla rossastra nell’aria irrespirabile.

Io già allora sentivo che non era giusto. Nella mia fattoria, con i nonni, le albe e i tramonti, il frutteto, l’acqua del fiume cristallina ero felice, ma sapevo già che era anche orribile. E mi sentivo anche molto solo.

I miei fratelli e ai miei amici disdegnavano le popolazioni indigene, le usanze e le loro storie, mentre io sono sempre stato molto legato a quei luoghi e a quelle persone, all’immensità del loro sapere. Quando sono partito per Bogotà, per andare all’università, sono andato a dire addio a tutti gli alberi che avevo piantato.

 

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Come mai vive e lavora negli Stati Uniti, è passato al “nemico”?
Certo che no! Ho dovuto lasciare la Colombia per motivi politici e ho giurato di non tornare più. Ero già interessato alla poesia e alla letteratura. Avrei voluto andare in Francia, dai miei amati simbolisti. Ho imparato a leggere molto presto, sui libri dei missionari italiani e francesi che abitavano in Amazzonia e paradossalmente i romanzieri russi e tedeschi e le poesie di Quasimodo mi hanno fatto amare ancora di più la mia terra. In Colombia avevo lasciato un figlio e un professore molto stimato del Kentucky che aveva letto alcune mie poesie mi invitò a collaborare con loro e a prendere un PhD. Scrissi una dissertazione su poesia e violenza che rispecchia una fase molto politica della mia vita. Non la rinnego ma oggi è diverso l’approccio.

 

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Oltre alle raccolte di poesie, lei ha girato anche due documentari, El rio, e The Trees have a Mother, omaggi a quel mondo così ricco di immaginario e di sapienza antica che stiamo depredando ormai da decenni. Sarà la bellezza a salvare il mondo o serve anche altro?
Nelle mie opere mi impegno per riuscire a toccare gli altri, cerco la bellezza, nonostante sia necessario anche un atto politico. Ma non la politica di facciata dell’Onu e delle grandi organizzazioni intergovernative che mettono in atto solo operazioni di finta catarsi e poi, segretamente, sovvenzionano e tollerano i governi della distruzione.
Serve un nuovo accordo con la Terra. I giovani lo sanno. Mia figlia ha 22 anni e vuole occuparsi di diritti umani, sono loro la speranza.

 

Guarda il video di “Canciòn de nube y río” di Juan Carlos Galeano

 

Come accolgono il suo messaggio i suoi studenti? La seguono nella ricerca di un altro paradigma, di un nuovo ordine simbolico rispetto all’Occidente?
All’università – e voglio sottolineare che la mia università non ha niente a che vedere con lo stereotipo orribile della Florida uguale Miami – il gesto politico è altissimo. I miei studenti devono andare tutti in Amazzonia, presso una delle tante popolazioni che conosco perché ogni anno torno in Amazzonia per continuare le mie ricerche e raccolte. Prima di partire, presentano un progetto di ricerca su una pianta o un animale e poi, una volta lì, vivono presso famiglie locali, collaborano con alcune Ong, conoscono gli sciamani e i guaritori, portano avanti progetti concreti per i villaggi, ogni volta diversi. Creano legami, approfondiscono la connessione di cui parlo nelle mie poesie, il Tutto che ci lega. Ho avuto centinaia di studenti ormai. Li ho seguiti anche dopo. So che sono tutte brave persone, impegnate, attive, diverse.

Qual è il dono più grande che le hanno fatto quella terra e i suoi abitanti?
Non leggono o scrivono eppure conoscono il segreto. E il segreto è nel modo in cui si rapportano alla natura, è la gratitudine che provano verso il sole, i fiumi, l’aria, le piante. E’ il sapere che siamo vivi grazie a loro. Parliamo di un ordine ecologico che le loro cosmogonie rappresentano in mille modi e che noi abbiamo perso quando abbiamo abbracciato la dicotomia e perso la religiosità, il senso che ci fare vedere il legame con il tutto. Io ci credo. Nonostante siamo sull’orlo del precipizio, ci credo così tanto che sono qui a parlare di poesia.

 

 

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Saperenetwork è...

Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti. Svolge attività di formazione sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione.
Giornalista professionista e scrittrice dal 1992, il suo ultimo libro è "Le mani in movimento" (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
E’ vice-presidente di Direttamente ets che sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.

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