Agricoltori in protesta i primi di febbraio ad Amburgo (Germania)

“Non potrete mangiare il denaro accumulato nelle vostre banche”

Le questioni sollevate dagli agricoltori nei giorni scorsi sono elementi di un quadro complesso. Soluzioni semplici rischiano di peggiorare la situazione. Qualche spunto di riflessione, nella convinzione che solo un ambiente sano può salvaguardare agricoltura ed economia (e vita) nel lungo periodo

«Quando avrete inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora vi accorgerete di non poter mangiare il denaro accumulato nelle vostre banche». La frase è attribuita a Toro Seduto, leggendario capo Sioux che combatté a lungo contro l’invasione dell’esercito e dei coloni americani, che si estendevano verso lo sconfinato west. Viene in mente qualcosa di questo genere avendo visto le proteste degli agricoltori in Europa e le reazioni (pavide e accondiscendenti) dei governi nazionali e degli organismi europei.

È certamente vero che «Senza agricoltori, non c’è cibo e senza cibo non c’è futuro».

Sorprende che non ci si renda conto del fatto che andiamo verso una scarsità di cibo (e contemporaneamente su scala mondiale sprechiamo un terzo del cibo prodotto) proprio per questo modello di sviluppo e di produzione.

Le richieste dei trattori

Le proteste degli agricoltori sembrano rivolgersi principalmente a una richiesta di aiuti contro prodotti di altri paesi venduti a più buon prezzo e per i danni prodotti dal cambiamento climatico (abbiamo visto quanto la siccità stia affliggendo interi paesi, vedi la Sardegna o la Sicilia con l’acqua razionata, per poi avere come altra faccia della medaglia le alluvioni). Al tempo stesso protestano contro alcuni provvedimenti per contrastare il cambiamento climatico – come la Nature Restoration Law, per ripristinare la natura e la biodiversità in certe aree – o contro la fine dei sussidi per il carburante agricolo, come deciso ad esempio dalla Germania con aumento dei costi di produzione.

Insomma, da un lato la protesta è contro il cambiamento climatico ma al tempo stesso è contro le misure europee per contrastarlo (timide ma comunque corrette).

Lasciare a riposo parte dei terreni ogni anno o fare una rotazione delle culture, ad esempio, è stata da sempre una strategia dei contadini, che serviva per mantenere la fertilità del suolo. Infatti, alternare le colture serve a bilanciare l’assorbimento dei nutrienti dal terreno, perché colture diverse hanno esigenze diverse, e reagiscono anche in maniera diversa ai parassiti, o alla scarsità di risorse (soprattutto acqua).

Manca uno sguardo d’insieme

L’attuale “economicizzazione dell’ambiente” agisce nel senso di privilegiare l’economia a scapito dell’ambiente, mentre dovrebbe esser evidente che, senza un ambiente in buone condizioni, anche la vita sulla terra non funziona. Mi avventuro nella trattazione di alcuni aspetti relativi a come adesso viene praticata e intesa l’agricoltura e l’allevamento di bestiame, con la chiara convinzione che il problema è vasto e complesso, per cui affrontarne solo uno o alcuni aspetti non risolve nulla, anzi ne complica, magari in maniera accentuata, altri aspetti. Cerco comunque di portare qualche elemento di riflessione. Lo schema che segue, un po’ grossolano, vorrebbe illustrare il flusso di materia, energia e risorse anche umane nell’agricoltura, includendo in questo anche la parte della produzione agricola in senso lato dedicata all’allevamento.

Produzione agricola – Agroindustria

Non sono un agronomo, ma ragionando a rigor di logica e senza voler essere esaustivo, ho riportato quelli che mi sembrano i principali elementi coinvolti nei processi agricoli: input, output e qualche retroazione. Ho usato il termine “produzione agricola” anche se adesso sarebbe più corretto il termine “agroindustria o agribusiness” proprio per le caratteristiche che l’agricoltura ha assunto sotto la pressione dei grandi gruppi industriali e chimici.

Ovviamente, come però avviene spesso, non possiamo dimenticare che questi processi sono immersi e condizionati dall’ambiente. Gli agricoltori chiedono ai governi nazionali e/o alle istituzioni europee di agire su alcuni di questi elementi, senza una visione complessiva.

Problemi contingenti e questioni strutturali

Ad esempio, chiedono di ridurre i costi del gasolio per i mezzi meccanici, o di poter continuare a usare i pesticidi (non importa quanto tossici per l’ambiente e l’alimentazione, questi permettono di controllare la crescita delle infestanti, anche se ne occorrono quantità crescenti nel tempo), o anche di evitare di tenere a riposo una minima percentuale (il 4%) dei terreni, come usavano fare i contadini in passato per migliorare in prospettiva la resa agricola. Ancora, gli agricoltori si sono espressi contro il Nature Restoration Law, che impone di recuperare la biodiversità in almeno il 30% dei terreni.

Tutto questo senza toccare i veri nodi dei processi agricoli, tra cui i problemi collegati alla concentrazione in pochi grandi gruppi della proprietà e distribuzione di sementi (spesso protette da brevetto), dei concimi e dei pesticidi.

Nello specifico, un agricoltore è obbligato a comprare i semi brevettati presso rivenditori autorizzati e nel prezzo è inclusa la royalty da versare all’azienda titolare. Da questi semi si ottengono gli individui F1, ovvero gli ibridi della prima generazione con tutte le caratteristiche desiderate (uniformità, resa elevata, resistenza agli erbicidi). Gli F1 in molti casi sono sterili, altre volte danno origine a nuove piante che però non conservano le caratteristiche selezionate, è necessario, perciò, ricomprare i semi ogni anno ed è proprio questa la forza motrice che fa progredire le aziende agroindustriali.

Brevetti e ciclo di vita

Ricordate la canzone: “Ci vuole un fiore” di Gianni Rodari e Sergio Endrigo? Nell’immaginario collettivo il seme genera una piantina che con il tempo cresce e produce fiori, frutti e semi dai quali nasceranno le nuove piante e così via.

 

 

Gianni Rodari dimenticava (nel 1977) che l’applicazione del brevetto industriale ai prodotti ortofrutticoli ha di fatto stravolto il naturale ciclo vitale delle piante, impedendo anche ai contadini di mantenere la fertilità della terra e la biodiversità agricola. Questo porta al degrado sia ambientale che culturale:

la diffusione dei semi brevettati causa la scomparsa, o la riduzione a produzioni di nicchia, di molte varietà locali selezionate dai contadini negli anni per adattarsi alle caratteristiche del territorio.

Chi decide il nostro cibo

La produzione e il commercio di semi è gestita per 23% da Bayer, per il 17% dall’azienda americana Corteva Agriscience, per il 7% da Syngenta (acquisita da ChemChina nel 2017) e il resto dalla tedesca Basf, dall’europea KWS, dalla francese Vilmorin&Cie e dalle giapponesi Sakata Seeds e Kanelo. La Syngenta Group e la Bayer sono le aziende dominanti anche nel settore dell’agrochimica, controllano il 40% del mercato globale e il resto è diviso tra Basf, Corteva, l’indiana UPL e la statunitense FMC. Nell’Unione Europea il 75% del mercato del mais è controllato dalle prime 5 compagnie del settore, così come l’86% del mercato della barbabietola da zucchero e il 95% di quello degli ortaggi (dati The Greens/Efa Group).

Quindi per la nostra alimentazione dipendiamo quasi esclusivamente da pochi colossi dell’agribusiness.

Questi controllano la compravendita di cereali, frutta, ortaggi e di tutti i loro derivati. Non ce ne accorgiamo, ma la nostra scelta alimentare è strettamente limitata a poche varietà commestibili che si sono affermate sul mercato: delle 80.000 specie vegetali commestibili oggi se ne coltivano solo 150, di cui 8 sono commercializzate in tutto il mondo (da: Slow Food).

Pesticidi e salute

Ancora: gli agricoltori hanno insistito perché fosse ritirata la proposta di legge europea per dimezzare l’uso di pesticidi, a loro dire per motivi economici e di produzione. Primo risultato: la salute dei 9 milioni di lavoratori impiegati nei campi di tutta Europa è ancora a rischio, perché l’esposizione continua a prodotti fitosanitari usati sulle coltivazioni causa potenziali effetti nocivi, tra cui l’insorgenza di forme tumorali, neurotossicità, disturbi del microbioma e altre patologie. In Europa i casi di avvelenamento da pesticidi sono 1,6 milioni.

Ma a noi che mangiamo i prodotti che ce ne importa? Mica stiamo noi nei campi! E no, perché i dati di monitoraggio per alcuni tipi di pesticidi mostrano che le concentrazioni presenti nell’ambiente superano ampiamente le soglie eco-tossicologiche di rischio.

In particolare, i dati Ispra del 2022 hanno rivelato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali esaminate nei punti di monitoraggio, mentre nelle acque sotterranee la presenza è stata rilevata nel 23,3% dei casi. E quindi il problema tocca da vicino anche i consumatori. Per Legambiente buona parte della frutta, della verdura e degli alimenti che mangiamo tutti i giorni contengono residui di pesticidi. Quindi quello dei pesticidi non è solo un problema degli agricoltori. Nel 2022, spiega una nota della Società Italiana di Neurologia, è stato messo a punto il SUR, acronimo di Sustainable use regulation of Plant Protection Products cioè un regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi per un dimezzamento del loro impiego nell’Unione entro il 2030. I pesticidi chimici sono fra le principali fonti di inquinamento dell’acqua e del suolo, dell’aumento della resistenza ai parassiti, nonché di varie malattie croniche dell’uomo, dai tumori al Parkinson. E quindi ci riguarda e come!!!

 

 

Il peso economico dei distributori

Proseguiamo. I provvedimenti richiesti soprattutto dai piccoli agricoltori, che lamentano la non redditività dei prodotti, non toccano però la distribuzione. Sono le grosse catene di trasformazione e distribuzione che condizionano i prezzi dei prodotti, pagando ai piccoli contadini un prezzo al limite della sussistenza. Ma questo ancora non basta, perché le multinazionali dell’agribusiness e della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) favoriscono anche lo spreco di cibo in quanto richiedono prodotti con caratteristiche estetiche utili alla loro vendita, a prescindere dalle caratteristiche nutrizionali, E quindi molta parte della produzione viene sprecata all’origine, in quanto non rispetta i criteri estetici. A questo aggiungiamo anche i vincoli sulle ”date di scadenza” dei prodotti che, una volta superate, ne favoriscono l’avvio al macero.

Secondo dati del 2012, la GDO detiene il 90% del mercato dei prodotti alimentari in Francia, oltre il 70% in Germania e Regno Unito, oltre il 50% in Spagna e Italia.

Ed è in grado di fissare i prezzi al consumo ma anche di imporre prezzi (per la GDO convenienti) ai produttori. E quindi, anche le richieste formulate, ed accolte con pavidità ed attenzione alla propria poltrona sia a livello nazionale che europeo, non toccano questo problema, e continuano a perpetuare un tipo di agricoltura folle in quanto consumatrice di un’enorme quantità di risorse.

Un cambio è necessario

Quindi gli aspetti che sono stati considerati nei giorni scorsi rappresentano (come ho cercato di illustrare grossolanamente con il grafico precedente) solo una parte del problema. Affrontare un problema complesso con soluzioni semplicistiche può fare più danni che altro. Purtroppo “Per vedere cosa c’è sotto il proprio naso occorre un grande sforzo. (George Orwell)”

È possibile un approccio differente? In linea di principio sì, anche se non facile, ma è necessario perché l’agricoltura attuale non è sostenibile ambientalmente, energeticamente etc.

Sul problema dell’agricoltura, e dell’allevamento, e dei prodotti ad essa comunque correlati, cercherò di dedicare una prossima pillola. Vorrei anche dare dei riferimenti su alcune buone pratiche italiane che tendono a promuovere un’agricoltura e un allevamento più sostenibili. A presto, allora!

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PS: A gennaio in un articolo di Riccardo Luna su Repubblica, dal titolo “Di trattori, autovelox, ambientalisti e studenti” ho letto «Ma prima ancora di entrare nel merito delle richieste degli agricoltori, colpisce la diversità di reazioni con altre manifestazioni. Perché se gli attivisti climatici di Ultima Generazione bloccano le strade per allertarci sui danni del cambiamento climatico e la debolezza delle nostre politiche di uscita dai combustibili fossili, sono degli ecovandali, vengono portati via dalla polizia e finiscono accusati di reati gravi, mentre se a protestare (e a bloccare le strade: nota mia) sono gli agricoltori è tutta una corsa a blandirli per carpirne il favore e quindi il voto alle prossime elezioni?»

 

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Saperenetwork è...

Tommaso D'Alessio
Tommaso D'Alessio
Ambientalista da sempre, che ha letto, all’epoca, il libro I limiti dello sviluppo, e quindi sta aspettando la catastrofe da 50 anni. Ma nonostante tutto, visto che serve Pensare globalmente Agire localmente, affligge chi gli sta vicino con l’intento di ridurre i consumi, di tutto: cibo, acqua, energia etc. e non cessa di operare per il miglioramento dell’ambiente, soprattutto urbano, nel contesto di Legambiente. È Presidente del Circolo Garbatella di Legambiente che dal 2012 ha in affidamento il Parco Garbatella in Roma, un’area di 40.000 m2, che il Circolo gestisce senza nessun contributo da parte del Comune. Da queste pluriennali esperienze ha avviato la sua strada di ambientalista estremo.

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