Il romanzo più noto di Laura Conti, ispirato ai fatti di Seveso. Rileggiamolo insieme

Il romanzo più noto di Laura Conti, ispirato ai fatti di Seveso. Rileggiamolo insieme

Due bambini di dodici anni, Sara e Marco, al cospetto dell’incidente industriale che sconvolse un intero territorio e le coscienze di tutti. L’editore Fandango ha riportato nei giorni scorsi “Una lepre con la faccia di bambina” in libreria, dopo 43 anni. Entriamo in questa storia insieme a una delle più sensibili osservatrici delle opere della scrittrice e attivista che fu al fianco delle comunità colpite

 LEGGI TUTTO IL DOSSIER Il mio omaggio visivo a Laura con un’opera inedita di FABRIZIO CARBONE /  Gli occhi di Laura. Uno sguardo scomodo sul presente di CHIARA CERTOMÀ / Laura torna in libreria. Intervista a Marco Martorelli di MARCO FRATODDI / Perché fu preziosa per noi di ERMETE REALACCI / A proposito di Laura Conti, madre dell’ecologismo italiano di MASSIMO SCALIA
 LE OPERE LETTERARIE Cecilia e le streghe, fra poesia e noir / Una lepre con la faccia di bambina di LOREDANA LUCARINI
 LA BIOGRAFIA Sulle tracce di Laura Conti, il volume di Valeria Fieramonte di MICHELE D’AMICO

Seveso è il simbolo degli errori nell’uso del territorio, «della mancanza di controlli pubblici contro lo strapotere degli interessi privati, dell’impotenza della pubblica amministrazione di un paese, pur industriale e civile, come l’Italia, di fronte a un disastro ecologico imprevisto, ma non imprevedibile». E ancora:

«Laura Conti ha fatto capire agli italiani che, oltre all’ecologia delle piante e degli uccelli, conta anche quella delle fabbriche, dei lavoratori, delle periferie urbane».

Si legge così nelle motivazioni che portarono all’assegnazione del Premio Firenze-Ecologia 77 per “Visto da Seveso”, un diario con taglio critico, fortemente carico di partecipazione emotiva, uscito all’inizio di quell’anno per Feltrinelli e centrato sui fatti di Seveso. Un evento sul quale Laura Conti sarebbe tornata, con un taglio più propriamente narrativo, con una “Una lepre con la faccia di bambina”: il romanzo più famoso di Laura Conti, pubblicato nel 1978 da Editori Riuniti e riproposto oggi da Fandango edizioni.

 

 

“Una lepre con la faccia di bambina” ci riporta l’incidente di Seveso in forma narrata, attraverso lo sguardo di Marco e della sua amica del cuore, Sara. Entrambi sono dodicenni. Il loro linguaggio è il linguaggio di un territorio culturalmente impoverito, come quello della Brianza e di tutta l’area metropolitana milanese. Non è un italiano dialettale, è quasi un italiano da stranieri, “coloniale” potremmo dire, parafrasando gli inglesi.

Sara è di una famiglia meridionale emigrata al Nord, Marco è di Seveso. Stanno vivendo le prime emozioni, le trasformazioni del loro corpo, quando la “nube” spezza il fluire delle loro esistenze.

Oltre al dramma ecologico, la nube mette in crisi i valori di questa comunità della Brianza: c’è una crisi del processo educativo, si inceppa la trasmissione dei valori da una generazione all’altra in una società di tradizioni artigiane, fortemente individualista, che si ritrova a vivere un’esperienza collettiva mortificante nell’esodo dalle loro case al moderno e lussuoso albergo offerto dalla Regione agli sfollati.

 

Guarda il dibattito su Rai Tre con Laura Conti, il regista Gianni Serra e Roberto Formigoni,
in occasione della trasposizione televisiva di “Una lepre con la faccia di bambina”. Il film sollevò aspre discussioni

 

E poi l’angoscioso dilemma di legittimare l’aborto provocato, in una società profondamente cattolica. La piccola comunità reagisce con la paura. Nega tutto. Nega che ci sia la diossina, nega che sia uscita dal reattore dell’Icmesa, nega che la diossina sia tossica. Il che voleva dire: l’aborto non è ammissibile. Laura Conti è durissima nei confronti di chi si indigna per l’aborto provocato, ma non si indigna per l’aborto “spontaneo”, che deriva dall’esposizione alla diossina. Affrontò sempre il problema dell’aborto con umanissima conflittualità, vivendolo con il suo corpo e la sua sensibilità di donna. Scrive nel 1981, poco prima dei due referendum sulla legge 194/1978, nel suo “Il tormento e lo scudo” (Mazzotta, 1981):

Tutti abbiamo visto l’immagine “bellissima” di un bimbetto già maturo per la nascita ma ancora avvolto negli annessi amniotici: la membrana vela il suo visino regolare, gli occhi chiusi come in un sogno, le piccole mani casualmente collocate sulla membrana sembrano trattenerla, quasi che il dormiente non volesse abbandonare il proprio sogno. L’immagine non avrebbe tanto fascino se gli occhi fossero aperti e il viso non velato: ma gli occhi chiusi e il velo sembrano racchiudere un mistero, sembrano alludere segretamente a cose delicate che non dobbiamo turbare.

Più avanti:

Con questo non voglio dire che non esista nessuna donna per la quale l’aborto è un dramma o una tragedia (e personalmente ne piangerei disperata), ma voglio dire che il fatto che l’aborto sia vissuto come una morte, piuttosto che come l’otturazione di una carie, appartiene alla sfera dell’immaginazione e sensibilità individuali e non può fare da supporto a una legge. Potrei aggiungere persino che le ragazze che vanno ad abortire con la stessa disinvoltura con cui si va a farsi otturare una carie non mi sono molto simpatiche: ma neppure questo potrebbe indurmi a ritenere che una legge debba ispirarsi all’una piuttosto che all’altra delle diverse possibili sensibilità individuali.

E infine:

Nel vostro ventre la natura e la storia aggrumano tutte le proprie contraddizioni: la natura intreccia il principio dello spreco col principio del risparmio; la storia intreccia le vittorie sulla mortalità infantile, che hanno determinato l’incremento demografico, con i rischi catastrofici che l’incremento demografico potrà un giorno portare con sé; e intreccia le contraddittorie esigenze del mondo industriale, che vuole a un tempo il sesso libero e la natalità programmata. Se voi ritenete di poter respingere tutte le fatture che vengono mandate al vostro indirizzo, chi ha il diritto di criticarvi? Se voi decidete che questi nodi vanno tagliati col bordo tagliente di un cucchiaio, chi ha il diritto di concedere? Chi ha il diritto di vietare? Chi ha il diritto di stabilire in quali sedi e circostanze è concesso, in quali sedi e circostanze è vietato? Che voi andiate ad abortire piangendo, oppure che ci andiate ridendo, tutti gli altri possono fare una sola cosa: rispettarvi.

 

 

 

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Ma torniamo al romanzo ispirato dai fatti di Seveso. Le case di Marco e Sara si trovano nella zona A, la più contaminata: è recintata con divieto di accesso. Sono andati a vivere in albergo con gli altri sfollati:

(…) L’albergo era fatto di torri altissime in mezzo a un parco, si vedeva la superstrada e le macchine che correvano, sembravano piccole e silenziose; il Duomo di Milano non si vedeva perché sulla città c’era un po’ di nebbia.

Quando siamo arrivati all’albergo ho visto che era proprio così lussuoso come diceva mia madre: e io che credevo che era di lusso l’albergo dove andiamo tutti gli anni a Cervia. Mi ha fatto impressione il lusso della sala d’ingresso: la mochett, i cristalli scuri, le lampade moderne. Ci siamo messi in fila davanti al banco del portiere, la mamma si è tolta la pelliccia e la stola, le teneva su un braccio, si guardava negli specchi delle pareti ma siccome con l’altra mano teneva la borsa di coccodrillo e la cassettina dei valori non poteva aggiustarsi i capelli o asciugarsi il sudore. Era seccata di figurare male in quell’ambiente, ma tutti avevano un’aria un po’ di barboni, donne che non avevano avuto il tempo di pettinarsi, altre col bambino in braccio e una sporta di pannolini, gente con borse chiuse male che uscivano cravatte e calzini, tutti avevano caldo e avevano l’aria di vergognarsi.

I bambini colpiti dalla cloracne, ricoverati in ospedale, cominciano a migliorare e l’albergo si popola di piccole mummie:

Il giorno che hanno portato a casa i primi cinque li hanno portati in sala da pranzo: tutti si voltavano a guardarli perché avevano la testa fasciata come mummie, con un buco per la bocca e i buchi per gli occhi. Stavano quieti quieti, forse in ospedale li avevano abituati a stare quieti, aprivano la bocca per aspettare l’imboccata, mangiavano e poi aprivano la bocca di nuovo, zitti e fermi come mummie… A poco a poco le piccole mummie fasciate di bianco sono diventate tante, non erano più così quiete, le trovavamo dappertutto… Poi hanno cominciato a guarire e i dottori hanno cominciato a togliere le garze, e era proprio impossibile guardarli perché avevano delle facce orribili con le bugne rosse e i buchi viola, e le macchie dei disinfettanti colorati. Così è cominciato fra i bambini piccoli un gioco nuovo, quello di pitturarsi le facce anche loro come gli indiani…

Un giorno in albergo arrivano le zingare (le femministe, nda):

Un giorno sono tornate le zingare. Almeno, io le chiamavo zingare. Ma erano davvero un po’ zingare, dicevano il futuro: dicevano che dovevano nascere dei bambini orribili, col muso come le lepri oppure come i lupi, e le mani attaccate alle spalle, sempre per via della diossina. Una volta ne ho incontrata una in corridoio e non c’era nessuno, così le ho domandato una fotografia. Era davvero un bambino orribile, aveva gli occhi da cinese e la bocca spaccata, proprio spaccata che gli andava su nel naso. Sotto c’era scritto: labbro leporino. Vorrà dire labbro di lepre. Ma non è mica vero: le lepri hanno il muso carino, un po’ come i conigli, e a me da bambino i conigli mi piacevano tanto, ce n’era uno che lo portavo in braccio e gli tremava il naso, era tanto carino ma invece quel bambino lì era orribile».

Marco ne parla con Sara: lei sa tante cose, vive in una famiglia numerosa, ci passa tanta gente:

Ci siamo seduti in un salotto dove c’erano alle pareti delle stampe con i cacciatori a cavallo in giacca rossa. Abbiamo cominciato a parlare delle femministe e di quelle loro fotografie.

– Io capisco che la diossina fa male ai bambini che ci sono già. Ma i bambini che non ci sono ancora? A quelli non ci credo, che gli fa male.
– Ma i bambini che non ci sono ancora ci sono già: stanno nella pancia della madre, ricevono il sangue della madre.
E già, questo lo sapevo. Chissà perché, non ci avevo pensato. Un bambino sta nella pancia della madre, non vede niente, non sente niente, ma se la madre prende il veleno gli fa male anche a lui, gli fa venire il muso della lepre.
-  In quel paese di O Ci Min dice che ce n’è tanti, di bambini col muso della lepre.
– Tanti.
-  Chissà com’è, un paese dove tutti i bambini hanno il muso della lepre. Forse le lepri hanno la faccia di bambino.

 

 

Ai primi di ottobre Marco deve tornare a scuola, ma non ne ha voglia, e nemmeno i suoi compagni della Zona a. La diossina è una gran vacanza, nessuno ha più voglia di studiare. A Marco piace stare in albergo, nell’albergo impara tante cose a furia di ascoltare. L’Assuntina, la sorella di Sara, aspetta un bambino e Marco non capisce perché arriva tanta gente in albergo, giornalisti, fotografi, la televisione straniera, e tutti la vogliono intervistare:

In quel momento finalmente ho capito tutto. Ho capito quei discorsi che facevano le donne e non volevano lasciarci ascoltare, ho capito perché era venuto il parroco, ho capito tante frasi lasciate a metà quando uno di noi ragazzi ascoltava. L’operazione non era per aggiustare il muso di lepre del bambino, ho capito perché Sara piangeva e perché aveva detto che sono un pirla, l’operazione era per ammazzarlo, il bambino.

Marco è sconvolto, non riesce a pensare ad altro:

Di giorno andavo in giro con la bici, andavo sulla superstrada: i cani non c’erano più, oramai saranno stati tutti morti. Andavo al ponte, e da lontano vedevo i marziani della bonifica: li guardavo, ma pensavo altre cose. Pensavo com’è, che io e Sara eravamo nati perché Dio aveva deciso di farci nascere, e Carmelina non era nata perché sua madre aveva deciso di non farla nascere: insomma chi è che decide, Dio o le madri… Pensavo sempre a quello, alle madri che si fanno ammazzare i bambini nella pancia. Pensavo alla mia maestra delle elementari che ci aveva fatto fare il tema “la mamma” e diceva che non c’è niente così grande come l’amore della mamma per i suoi bambini.

Sara deve partire. Marco e Sara si salutano:

Siamo andati a sederci sui gradini, dove una volta c’erano i vasi per la conserva di pomodori, e adesso non c’era più niente. Le piante dell’orto erano cadute a marcire per terra. Cera tanta nebbia che non si vedeva nemmeno la staccionata e il cancello. (…) Siamo rimasti lì un po’ senza parlare. Ha cominciato a piovere, la nebbia si è sciolta, si vedeva di nuovo il pollaio, ma la staccionata avevano già cominciato a buttarla giù.

– Ti ricordi, Sara: là c’era la cuccia della cagna.
– La cagna è morta.
-  Ti ricordi, la gatta andava a dormire sulla sua schiena.
– È morta anche la gatta.
– Ti ricordi le merende che preparavi, il pane col pomodoro e il sale e l’origano.
– Forse l’ultimo pomodoro era diossinato e mi ha fatto ammalare. Forse ha avvelenato anche te.
-  Ma sei guarita, Sara: la tua faccia è tornata quasi come una volta.
– Non sono guarita. Guarda le mie unghie.
– Sono pulite. Hai imparato a pulirti le unghie.
-  No, guarda, sono nere. Non l’orlo, quello è pulito: proprio l’unghia, dove era color carne, è nera.

Ho messo le mie mani vicine alle sue: io avevo le unghie color carne, e lei aveva sulle unghie come un’ombra nera.

– Cosa vuol dire?
-  Tanti bambini che hanno avuto la cloracne hanno questo nero.

Non si sa cos’è. Non lo sanno neanche i dottori. Dicono che è un segno della diossina. Di notte è poi venuta a bussare piano piano alla mia porta:

– Marco, Marco, vieni a aprire.

Era vestita col cappotto nuovo, le scarpe nuove:

- Parto. Andiamo giù tutti dalla mamma, per il funerale.
– Quando torni?
– Non torno. Torneranno il papà e i fratelli, perché qui c’è lavoro, ma la mamma e io restiamo laggiù. La mamma dice che non ci vuole più stare in questo paese avvelenato, che le ha fatto morire una figlia.
– Sara, oh Sara.
– Beh, ciao.
– Sara, come faccio senza di te.

Aveva gli occhi rossi ma mi ha fatto un sorriso:

– Ti trovi una ragazza piccola così. E si è piegata sulle ginocchia.
– Oppure una ragazza alta così. E si è alzata in punta di piedi.

Adesso quando piove e non c’è nessuno di guardia, oppure quando c’è nebbia e non mi vede nessuno, vengo nell’orto di Sara e me ne sto seduto sui gradini. Non si sente nessun rumore, solo qualche voce lontana. Mi guardo le unghie: anche sulle mie unghie c’è come un’ombra nera.

Al termine del racconto, Laura Conti aggiunge una nota di due pagine. Inizia così:

La diossina è una sostanza embriotossica; se assunta dalla gravida entro il terzo mese di gravidanza, la sua azione tossica sull’embrione può dar luogo alla nascita di un bambino malformato. Se la malformazione è grave l’embrione non sopravvive, e si verifica quindi l’aborto. In tali casi l’aborto viene chiamato, impropriamente, “spontaneo”. La parola “spontaneo”, in questa particolare accezione, significa “voluto non dalla madre bensì da altri”. Per esempio, la Givaudan.

 

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Loredana Lucarini
Loredana Lucarini, docente di Lingue vive a Milano. L'esperienza maturata nei corsi "150 ore" dell'Alfa Romeo e in "Legambiente" l'ha portata ad occuparsi di molteplici problemi ambientali. Ha pubblicato "Una storia ecologica" (Franco Angeli, 1998). Ha curato "Laura Conti. Dalla Resistenza, all'Ambientalismo, al caso Seveso" (Unicopli, 1994). Una sua biografia di Laura Conti è pubblicata in "Laura Conti, alle radici dell'ecologia" (La biblioteca del Cigno, 2012).

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