Verso un’ecologia del suono. Intervista a Franco Mussida
Il compositore, saggista, formatore, storico chitarrista della Pfm ci parla, tra le altre cose, del suo ultimo lavoro solista, “Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu”. Un’immersione nel suono di cui facciamo già parte, a volte, senza saperlo. In attesa di vederlo il 9 settembre al Poetry Village di Roma
Quello che consiglia è di sdraiarsi sotto a un pianoforte e chiedere a qualcuno di suonarlo. Solo così ci si rende conto che siamo parte del flusso, insieme alla musica. Perché «Siamo esseri vibranti». A dirlo è Franco Mussida, nome leggendario nella storia della musica: chitarrista della Premiata Forneria Marconi, saggista, compositore, fondatore della scuola di musica Cpm di Milano. Da anni porta la sua ricerca sulla bellezza attraverso la musica anche nelle carceri.
A ottobre del 2022 è uscito il suo ultimo album solista, Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu, un’immersione nel pianeta del suono di cui ci ha parlato, in attesa di vederlo dal vivo il 9 settembre a Roma, al Poetry Village.
Maestro, il suo ultimo album è un concept. Che idea c’è dietro?
L’idea è di affrontare il mondo del suono e della musica a partire da un elemento di ingenuità, rappresentato da un bambino, Iòtu. Rappresenta due forze dell’anima, l’io e il tu che lavorano costantemente durante la vita. Lui scopre di averle a quattro anni, mettendo l’orecchio sulla cassa armonica del suo papà, dando un grosso colpo alle corde. Scopre di possedere qualcosa di più degli occhi, che gli vibra dentro, si rende conto di essere possessore di un’anima. Con questo ricordo percorre la sua vita, diventa musicista, ha della musica una visione che non è solo legata alle forme, ma soprattutto agli effetti del mondo del suono su di lui e su chi lo circonda. Per raccontare questo mondo, finisce per fare un viaggio in diversi approdi lungo un territorio, che chiama il pianeta della musica, fatto di grandi continenti emotivi comuni a tutti.
Che tipo di viaggio è?
In parte lui racconta, in parte osserva dall’alto il procedere di una società che fa fatica a osservare questa dimensione, presa dal mondo della luce, dalla visione delle cose, dalla verbosità imperante in questo momento. Racconta questo suo viaggio toccando argomenti attinenti al mondo delle emozioni e sensazioni, o alla visione del presente. Essendo un bimbo, come quello della favola del Re nudo, dice le cose come dovrebbero essere dette. Questa naturalezza nasconde una profondità a cui siamo poco abituati.
Un protagonista bambino, attorno a cui ruotano i tredici brani. Fa pensare a Tommy degli Who. Anche quella di Iòtu potrebbe diventare un’opera rock, come Tommy?
Sì, è vero. Ho avuto anch’io questo pensiero, ed è un pensiero da coltivare. Ho fatto la prima rappresentazione a Milano, al teatro San Fedele, eravamo in nove sul palco. C’erano anche altri brani che non sono nell’album, che collegano alcune parti dell’album stesso. E sto pensando a un’opera, un’opera pop più che rock.
Tommy era un bambino traumatizzato, Iòtu invece tutt’altro, sembra incarnare una saggezza che noi quasi non abbiamo…
Iòtu è felice. Forse per questo è difficile farlo “arrivare”. Perché tutto quello che è molto traumatico finisce per essere più interessante. Tutto quello che vorrebbe farci cambiare impegna in maniera diretta le persone, richiede uno sforzo, quello di uscire da una situazione di disagio dentro il quale talvolta si è trovato il proprio equilibrio.
Questo concetto si lega alla sua attività di insegnante, educatore di giovani e di persone con problemi di tossicodipendenza e disagio…
Quando si scoprono le qualità nascoste, quelle che aiutano e confortano, in elementi come la musica, poi si viene portati a farsene carico. Perché tenersi le cose belle per sé? Le cose belle, la bellezza se la si riesce a cogliere va condivisa. In questo momento c’è da porsi il problema di come riconoscerla, la bellezza. Lavorare, provare a lavorare con le persone per ristabilire un po’ l’energia che consente di riconoscerla con meno fatica è un’altra delle cose che mi spingono a lavorare continuamente, anche adesso, con le comunità e con le carceri.
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Com’è nato questo impegno?
Negli anni 70 ho iniziato a occuparmi di tossicodipendenza. Ci eravamo accorti che c’erano persone che giravano intorno al gruppo che stavano molto male. Nel 1984 è nata la Cpm Music Institute, nel 1987 iniziano le attività di lavoro in carcere, a San Vittore, basate sull’esperienza del coro. Sono più di 35 anni che mi occupo di queste cose. Il massimo comun denominatore è la meraviglia di queste persone, che spesso stanno anche parecchio male: la meraviglia di avere dei momenti che non sono attimi, ma del tempo durevole, in cui poter entrare in empatia con sé stessi in un modo molto meno conflittuale del normale, dove la parte auto distruttiva viene messa a lato grazie all’azione magica della musica.
Occorre, per farlo, guardarsi negli occhi: vivere certe esperienze insieme ai gruppi è un’opera di formazione.
Come funziona, qual è il lavoro della e con la musica?
Quando si parla di emozioni e sentimenti si traccia di fatto una fotografia comune di queste cose. La malinconia, la nostalgia, la gioia, non sono stati d’animo che riguardano un solo popolo o una sola persona. Fanno parte dell’esperienza di ogni singolo individuo. La musica è un meraviglioso specchio della nostra più bella identità individuale. Ciascuno si riflette o riflette se stesso, e decodifica in modo unico e personale un brano che gli piace. Ma nello stesso tempo facciamo parte di grandi famiglie. La grande famiglia dei malinconici, dei gioiosi, dei nostalgici. Grandi famiglie che abbracciano o allargano il proprio colore, in maniera che va oltre la dimensione di una nazione. La famiglia dei malinconici mette dentro i nigeriani, i napoletani, i milanesi, gli statunitensi. È questa la bellezza della musica, è un linguaggio universale proprio per questo.
La musica trascende individualismi e nazionalità. Ma è anche qualcosa di concreto come un piatto di spaghetti, come dice lei in un brano, “Io Noi La Musica”…
Esatto. Molto concreta, ma si fa fatica a immaginare la musica come qualcosa di materiale. La musica prima di tutto è un elemento materiale, e per materiale non intendo solo certe qualità del suo codice musicale, intendo la sua fisicità, che ha nel timbro sonoro la dimensione fisica. L’identità di qualsiasi suono è il suo corpo, e non è un corpo evanescente che sparisce. Come dice Jung tutta la musica nasce dall’inconscio per poi tornare all’inconscio. Ma per fare questo deve attraversare il corpo dell’uomo, la sua intelligenza, capacità d’analisi, l’intelletto.
Che cos’è l’ecologia del suono?
La necessità di cominciare a farsi delle domande sulla qualità del suono e del mondo del suono e della musica. L’ecologia del suono è legata all’ecologia dei sentimenti, che tratto nel mio libro “Il pianeta della musica”. Suono, musica e essere umano fanno parte di una stessa spiga, la radice è una sola, siamo esseri vibranti. Per questo la musica ha per noi un valore assoluto. Sono cose congiunte, ogni volta che facciamo ricerca sul mondo dei sentimenti la facciamo sul mondo della musica e viceversa.
Qual è lo stato ecologico della musica, oggi?
Secondo me non abbiamo bisogno di dedicarci a capire e misurarne solo l’inquinamento. Faccio il musicista, l’operatore culturale e il formatore, il mio compito non è quello di spaventare ma di sottolineare gli elementi luminosi. C’è bisogno di questo.
Quello che consiglio sempre, a tutti, è di sdraiarsi sotto a un pianoforte, a mezza coda o a coda, fate suonare qualcuno, vi rendete conto degli armonici naturali, di che cosa vi viene addosso, di quello che questo magico flusso sonoro crea dentro.
Poi prendete una cassa di un impianto qualsiasi, un piano digitale e vedete se è la stessa cosa. Se un parquet costa molto poco al metro quadro, non sarà la stessa qualità di un bellissimo parquet di legno di pino. Con la musica è la stessa cosa, bisogna scoprire la differenza. La bellezza di questo momento storico non è di stupire il mondo con effetti speciali ma di farci stupire dal mondo e provare a raccontarlo. Saper riconoscere la bellezza, oggi, è un lavoro degli operatori culturali, e non è scontato.
Guarda il video di Io Noi La Musica
Nell’album c’è una miscela immersiva davvero coinvolgente. C’è ovviamente del prog, ma anche blues, pop, world music. Lei come lo definerebbe?
È il riassunto della mia vita come musicista. Con una voglia di sintetizzare, mettere in sintesi un po’ tutto quello che ho vissuto, ho messo dentro cose che riguardavano la mia prima giovinezza. Ci tengo a dire opera di sintesi perché non ho voluto metterci elementi di eccitazione e rabbia. Qualche elemento di indignazione c’è, ma mai la rabbia. Anche il mondo del suono lo volevo privo di qualsiasi aggressività che imponga agli ascoltatori le cose. Niente distorsori. E poi uno strumento solo, la mia chitarra baritona classica, che io chiamo Arca 6, e che si porta dietro tutta la mia storia.
Si percepisce molto la vicinanza nella natura, del mare, delle foglie…Come ha fatto a fare un intero album solo con questo strumento, creando una sensazione così profonda di viaggio nella natura?
È stata una bella sfida. Fare un album con un solo strumento è naturale per un musicista classico che lavora nel mondo classico, ma io non lavoro nel mondo classico, suono in polifonia e suono una chitarra con le corde di nylon, prive di elementi di aggressività. Credo che alla fine si riesca a non annoiarsi nonostante la continuità del mondo sonoro anche grazie alle tante forme diverse che ho usato. Ho usato anche la voce in modo diverso, a volte racconti, altre volte canzoni.
Infatti sembra un piano sequenza in musica…
Sì, è vero. E torniamo all’idea dell’opera pop che ho in mente. Soltanto che il portato di questo lavoro è poco usuale per il momento, ha bisogno di essere diffuso e sentito. Per questo ho deciso di iniziare a presentarlo provando a raccontare cosa c’è dentro.
Che cos’è il progressive per lei?
Il progressive per quanto riguarda la musica popolare è ciò che la fusion è per il jazz. L’opportunità di dialogare con sorgenti espressive e compositive diverse, sia per quanto riguarda i suoni che i ritmi delle strutture. Alla base c’è la musica popolare, nella sua natura prima. Il rock ne è un’evoluzione ed è qualcosa che ha a che fare con la cultura afro americana, con tutto il portato umanistico di popoli oppressi. Alla fine se si va indietro nel tempo, si arriva al mondo popolare. Il progressive collega questo mondo fatto di grandi istintività con il rigore del classicismo, con la fantasia dell’improvvisazione, alla dimensione classica delle strutture. Il prog è il momento in cui si è sentito il desiderio di collegare forme e suoni della musica classica con il mondo del jazz, della musica popolare. Non a caso spesso i musicisti prog avevano papà jazzisti, o erano cresciuti ascoltando musica classica.
Sempre in “Io Noi La Musica”, c’è un forte discorso generazionale. Il suo passato ha inevitabilmente a che fare con la Pfm…
Tutto quello che mi riguarda ha sempre a che fare con il mio passato, fa parte delle mie radici. Mi riguarderà per sempre, non è qualcosa che voglio mettere da parte. Convivo meravigliosamente con un’esperienza fatta per quarant’anni. È qualcosa di importante. Noi abbiamo avuto la fortuna di vivere un periodo magico, è come se fosse finito dentro un accumulatore spirituale che continua a generare energia che continua a nutrire le persone della mia generazione.
Non è una pianta con rami che vanno tagliati, tagliando quelli dove si è seduti.
C’è un collegamento, ed è nostro compito raccontare in modo vivo quali sono le differenze tra natura analogica e digitale. Dobbiamo riformare la nostra didattica, immaginando di raccontare da un punto di vista non solo storico ma anche esponenziale. Se non ti metti sotto un pianoforte e non fai un’esperienza hai solo concetti.
Nel video di “Io Noi La musica” c’è una farfalla che si mette davanti al mirino di una persona con un mitragliatore e gli impedisce di prendere la mira. Il messaggio pacifista era voluto o ha solo a che fare con il compito della musica?
La parola pacifismo non mi piace molto, è un po’ divisiva. Ho voluto mettere quella farfalla perché impedisce di prendere la mira. È questa la bellezza, collegata a una dimensione della musica. Noi ci siamo goduti una cosa meravigliosa che ci ha permesso di sviluppare queste ali di farfalla che ci consentono di guardare la bellezza. Questa cosa può ancora volare, anche oggi.
È una metafora legata anche al mondo animale e naturale…
Certo, siamo fratelli di tutti i regni della natura, ce li portiamo dentro, perfino i minerali. Abbiamo tutto dentro di noi.
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Saperenetwork è...
- Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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