La marcia della pace di Genova, il 2 aprile scorso (Foto: Weapon Watch)

La marcia della pace di Genova, il 2 aprile scorso (Foto: Weapon Watch)

Con i portuali di Genova, per fermare la filiera della morte. Intervista a Carlo Tombola di Weapon Watch

Il capoluogo ligure in questi giorni è al centro di accese proteste contro il transito d’armi nel porto. Un transito che, nonostante su carta sia vietato per i Paesi che sono in guerra e che violano i diritti umani, continua. Il presidente dell’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei spiega cosa sta succedendo

«La protesta va avanti da maggio 2019. Siamo quasi al terzo anno. Le navi Bahari (che trasportano armi, ndr) arrivano con una cadenza di 20-25 giorni l’una dall’altra, e molte sono state le occasioni in cui i portuali hanno protestato, in forme diverse. Ora stiamo attendendo nuove navi. Il prossimo arrivo è previsto tra il 7 e l’8 aprile». Con queste parole Carlo Tombola, presidente dell’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei (The Weapon Watch), racconta come è nata la protesta dei portuali di Genova contro il transito di armi in porto. L’ultima il 2 aprile, per fermare la filiera della morte. Tante le associazioni  che hanno partecipato: Emergency, Libera, Sea Watch, Arci, Pax Christi, Anpi, Scout. I manifestanti hanno poi  consegnato una lettera alle Autorità portuali, perché non si può essere più complici dell’uccisione di migliaia di bambini, donne, civili.

 

Carlo Tombola, presidente di Weapon Watch, osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei
Carlo Tombola, presidente di Weapon Watch, osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei

 

Da chi è arrivato il sostegno alla vostra protesta?

Il sostegno è arrivato ora. Un sostegno largo, vasto. All’inizio le lotte sono state molto isolate. In quelle del maggio 2019 ci fu un appoggio dagli stessi gruppi che erano presenti nella manifestazione dello scorso del 2 aprile, prevalentemente cattolici. Ci sono state anche due mozioni del Consiglio comunale e del Consiglio regionale di Genova, che all’unanimità hanno espresso sostegno alle lotte dei portuali. Ma da allora si sono verificate azioni di repressione piuttosto violente. In particolare contro cinque membri del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali ).

Cosa chiedete alla Autorità Portuali e ai governi?

Abbiamo fatto delle richieste formali alle autorità locali, all’Autorità portuale, alla Capitaneria di porto, alla Prefettura e anche un esposto alla magistratura. Con reiterate richieste di accesso agli atti. Adesso sono state rinnovate. Ci siamo rivolti anche al Garante per la tutela delle azioni civiche nell’amministrazione pubblica. Ma formalmente non abbiamo ricevuto alcuna risposta. I portuali avevano ottenuto anche l’assicurazione nel luglio scorso che a settembre ci sarebbe stato un incontro pubblico per l’attuazione della legge 185/90 (che vieta di vendere armi ai Paesi che negano i diritti umani e/o sono in guerra n.dr.), ma non c’è stato alcun incontro.

Chiediamo pertanto alle Autorità portuali di aprire questo dialogo, e di lavorare per recuperare la legalità di chi opera in porto, perché il transito delle armi è vietato verso i Paesi che sono in guerra, verso Paesi in cui si violano gravemente i diritti umani, verso Paesi dove si compiono genocidi e verso Paesi in cui le armi vengono utilizzate per le repressioni politiche o contro i civili.

Chiediamo quindi il rispetto delle leggi e dei trattati internazionali che prevedono i punti che le ho detto. Chiediamo poi che cambi il clima, che diventi di collaborazione e trasparenza. Perché fino ad ora le nostre richieste sono state ignorate e allo stesso tempo non è stata rivelata alcuna informazione che potrebbe essere utile per stabilire che cosa viaggia su quelle navi, per capire quanto sono pericolosi i carichi per i lavoratori in banchina e per i residenti nella città di Genova.

 

Il porto di Genova
Il porto di Genova è il più grande e più importante porto italiano (Foto: Wikipedia)

 

L’Italia è quindi parte attiva di questa guerra…

Il nostro Paese è parte attiva di tutte le guerre in corso. In Ucraina, che è la guerra più eclatante che è scoppiata recentemente, ma anche in Libia, Siria, Yemen, in Africa. Una nave carica di munizioni partita da La Spezia è stata sequestrata a largo del Senegal. Dove stavano andando quelle munizioni? A quale guerra africana avrebbero contribuito? Questi sono interrogativi a cui le autorità non hanno mai risposto.

Il nostro Paese esporta armi e quindi partecipa attivamente alle guerre. Contro i regolamenti, le leggi, i trattati internazionali. Per quale ragione?

Perché esistono aziende che realizzano questi “prodotti” che, nonostante i controlli e le leggi, vanno nei Paesi dove le guerre stanno per scoppiare. 

 

 

I governi non sembrano ascoltare i cittadini che si oppongono a questa guerra. La lotta dal basso nonviolenta sembra essere ora la sola alternativa a chi vuole inviare armi?

Questo è particolarmente grave, perché l’esportazione delle armi – non lo dico io ma lo diceva già Eisenhower nel 1961- ha a che fare direttamente con la democrazia. Se l’apparato industriale militare prevale su quello politico, sugli eletti, sulla volontà popolare rappresentata dai politici, allora la democrazia diventa decisamente poco credibile e il controllo dei cittadini diventa superficiale o ininfluente.

Bisogna allora continuare la lotta in modo non violento, provando tutte le vie possibili, muovendoci tra gli spazi delle contraddizioni che gli stessi governi  finiscono per alimentare.

Negli ultimi cinquanta anni, forme diverse di protesta contro il governo – quelle violente o molto violente – hanno provocato enormi disastri sia al movimento che protestava sia al Paese in generale.

Non solo armi da guerra, anche quelle  per la difesa personale sono un problema per l’Italia…

Nel nostro Paese l’opinione pubblica a poco a poco è entrata in un clima di timore, per non dire di paura, alimentato tra l’altro dall’ultima pandemia (per altri versi). L’acquisto di armi per la difesa personale è la reazione a questo clima, risultato di una evoluzione storica.

È la reazione più rozza e barbarica possibile, ma si può comprendere… del resto nei Paesi che non hanno la tradizione di mediazione e di controllo collettivo della sicurezza – come negli Stati Uniti, dove il porto d’armi è un fattore della libertà individuale – si riscontrano problemi maggiori.

Pensiamo alla recente strage di Sacramento. Le industrie delle armi non hanno alcun interesse ad essere controllate e non vogliono nemmeno la limitazione all’acquisto. È un discorso da una parte diverso da quello delle proteste, ma da un’altra affine, perché gli interessi economici sono gli stessi.

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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