Dal vaiolo alla speranza dei nostri giorni. Una breve storia del vaccino
Una corsa contro il tempo per avvicinarci all’immunizzazione di massa, che stiamo vivendo con molta apprensione in questi ultimi giorni. Ma cosa significa vaccinarsi, e perché è necessario? Come nasce, nella storia, l’idea del siero in grado di scatenare la risposta immunitaria del nostro organismo?
L’abbiamo atteso, invocato e accolto non appena è arrivato e ora aspettiamo il nostro turno per la vaccinazione contro la SARS-CoV- 2. Si parla oggi di nuovi vaccini a RNA ma la loro storia viene da lontano e, almeno nelle sue prime fasi, è strettamente legata al vaiolo. Il primo vaccino della storia fu infatti pensato per contrastare la diffusione di un flagello che non aveva confini e che, nei casi più fortunati, portava alla deturpazione o alla cecità, ma spesso conduceva alla morte. Il vaiolo, malattia causata da due forme di virus, la Variola maior e la Variola minor, è stata anche la prima malattia virale al mondo dichiarata eradicata nel 1980 proprio grazie alla vaccinazione di massa.
I primi tentativi di immunizzazione nella storia
Il tentativo per immunizzarsi alle malattie andava dall’uso di erbe e presunti rimedi che invece sfruttavano l’osservazione dei fenomeni e l’esperienza diretta. È il caso della variolizzazione, che prende proprio il nome da Variola, una pratica che affonda le sue radici in Asia nel X secolo e che è stata precorritrice della vaccinazione. Mancavano le conoscenze scientifiche per sapere cosa causasse la malattia ma, dall’osservazione che alcune persone sviluppavano delle forme di vaiolo attenuate e meno aggressive – dovute alla Variola minor – e che potevano essere rese così immuni alle forme di vaiolo gravi, che ora sappiamo causate da Variola maior, nacque la pratica di immunizzarsi alla malattia, ad esempio mettendo a contatto persone sane con persone malate di forme di vaiolo meno aggressive, o più spesso utilizzando il materiale biologico prelevato dai malati. Si estraeva infatti il pus dalle lesioni degli infetti non gravi per inocularlo ai sani. Il principio in sé non era sbagliato. Si trattava di permettere all’organismo di riconoscere una presenza estranea e predisporre un attacco anticorpale, come oggi sappiamo.
La variolizzazione però era pericolosa proprio per le osservazioni empiriche su cui era fondata, causando spesso l’insorgenza di forme gravi ed emorragiche della malattia, invece di quella attenuata, e lo scoppio di focolai epidemici.
Nonostante ciò, si diffuse in Europa, dove era conosciuta fin dal ‘600, ed ebbe un suo momento di notorietà quando, agli inizi del ‘700, Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, la diffuse nei circoli aristocratici inglesi e, per dimostrare la completa fiducia nella pratica, la fece eseguire sui propri figli.
Jenner e il vaiolo
La prima vera vaccinazione della storia si deve però a Edward Jenner, medico e naturalista britannico che aveva osservato che molti mungitori e allevatori di bovini si infettavano con una forma leggera della malattia che contraevano dalle vacche. Capì che i contadini contagiati dal vaiolo vaccino erano immuni al vaiolo umano. Iniziò quindi le sperimentazioni che lo portarono, nel 1796, a inoculare del materiale ricavato dalle pustole di malati di vaiolo vaccino nel piccolo James, il figlio del suo giardiniere. James sviluppò una forma lieve di malattia, da cui guarì in pochi giorni senza conseguenze. Dopo qualche tempo, Jenner inoculò allo stesso James il vaiolo umano che però non causò la malattia e proprio da questa prima pratica il vaccino e la vaccinazione prendono il loro nome. La vaccinazione contro il vaiolo prese subito piede dando il via alla ricerca sull’immunizzazione anche da altre malattie.
Come funziona
Ma come fa un vaccino a prevenire la malattia causata da un patogeno? La risposta è nella complessità e adattabilità del nostro sistema immunitario. Fin dalla nascita siamo infatti dotati di un sistema di difesa dall’ambiente esterno. La prima linea è data dalla cute, dagli enzimi presenti nella saliva e nelle lacrime e dalla difesa immunitaria, detta aspecifica o innata, che interviene su tutto ciò che viene riconosciuto come estraneo. Fra gli elementi che compongono questo sistema ce ne sono di più specializzati il cui compito preciso è di riconoscere il materiale estraneo all’organismo, detto antigene, ad esempio strutture composte da proteine o da zuccheri caratteristici di un determinato virus o batterio, e di presentarlo (è proprio questo il termine esatto) agli appararti superiori del sistema immunitario.
Da qui parte la difesa specifica, adatta a riconoscere la minaccia e a fermarla prima che la sua replicazione nell’organismo causi un danno evidente. Il sistema immunitario sintetizza perciò gli anticorpi che saranno capaci di riconoscere il materiale estraneo, di legarvisi, neutralizzarlo ed eliminarlo.
È per questo che un vaccino non può essere efficace in poche ore dalla somministrazione, perché è necessaria l’attivazione del sistema immunitario. Nel caso del vaiolo, dopo l’inoculo della forma di malattia lieve, il sistema immunitario si attivava per fronteggiarla senza conseguenze, ma le proteine riconosciute come estranee da parte dell’organismo erano le stesse del virus del vaiolo umano. Una volta venuto a contatto con il vaiolo umano le persone vaccinate avevano già gli anticorpi adatti a riconoscere e bloccare la replicazione virale impedendo i danni all’organismo. Questo significa che la vaccinazione non ci impedisce di venire a contatto con i batteri e i virus ma che, quando li incontriamo sulla nostra strada, abbiamo già le difese adatte a evitare che possano nuocerci e che possano replicarsi nel nostro organismo rendendoci capaci di contagiare altre persone. Il sistema immunitario ha quindi una memoria immunologica che può durare per tutta la vita o che deve essere periodicamente rinforzata attraverso i richiami vaccinali, come avviene per la vaccinazione antitetanica. Questo meccanismo vale in generale per ogni tipo di vaccinazione ma, nel caso del vaiolo non consente solo di proteggere dalla malattia ma di far scomparire alcuni patogeni dalla faccia della terra, cioè di eradicarli.
Perché sia possibile l’eradicazione, il patogeno deve essere solo umano e trasmesso da uomo a uomo. L’uomo è cioè l’unico serbatoio, dove il virus si moltiplica e da dove parte l’infezione. Una volta che la vaccinazione ha impedito al virus di replicarsi e di diffondersi, esso è semplicemente scomparso e ad oggi solo due laboratori al mondo, uno negli Stati Uniti e uno in Russia, conservano campioni del virus per motivi scientifici.
Koch e Pasteur
Dai tempi di Jenner le pratiche vaccinali sono cambiate, migliorate, si sono ingegnerizzate per essere efficaci e rapide. La storia dei vaccini e della vaccinazione proseguì infatti e, nonostante i primi fallimenti nel cercare di applicare il modello di Jenner ad altre malattie, fu grazie agli studi nella seconda metà dell’800 di Robert Koch prima e di Louis Pasteur poi che si arrivò al vaccino come quello contro l’antrace. La difficoltà maggiore rispetto al vaiolo era infatti di trovare un patogeno capace di causare una forma non grave dalla malattia che consentisse di immunizzare dalle forme gravi. Il successo fu quindi raggiunto quando Pasteur riuscì a ottenere delle colture batteriche attenuate e quando ottenne un virus della rabbia indebolito incapace di causare la malattia una volta inoculato, ma capace di suscitare la risposta immunitaria.
Per ottenere un vaccino vivo attenuato è necessario operare in laboratorio selezionando ceppi virali o batterici che non sono capaci di causare lo sviluppo di malattia o che lo fanno in modo attenuato. Ceppi di questo tipo sono per esempio meno capaci di penetrare le cellule bersaglio, si riproducono in modo meno esplosivo, consentono al sistema immunitario di tenere sotto controllo l’attacco prima che ci siano danni e, ovviamente, sono capaci di suscitare la risposta immunitaria che serve all’organismo per difendersi da attacchi futuri. Sono vaccini vivi attenuati quelli per il morbillo, la rosolia, la parotite, la varicella, ed è di questo tipo anche il vaccino orale di Sabin, contro la poliomielite, la cui diffusione ha permesso di contrastare efficacemente e capillarmente la malattia tanto da far sperare di essere prossimi alla sua eradicazione. I vaccini vivi attenuati sono sicuri e lo sono maggiormente quando la vaccinazione è diffusa all’interno della popolazione. In alcuni casi infatti, quando la copertura vaccinale è scarsa, si sono avuti dei focolai chiamati in modo fuorviante “da vaccino”. È successo con il virus causa della poliomielite ad esempio.
In rari casi, il virus del vaccino può modificarsi in forme di nuovo forti e, in scarse condizioni igieniche, una persona non vaccinata per la poliomielite può venire a contato con acqua contaminata e infettarsi. Con un’alta percentuale di vaccinati, i vaccini vivi attenuati non sono un rischio.
Anatossine e vaccini inattivati
Sempre dell’800 è l’allestimento di vaccini ad anatossine. Alcuni microrganismi, come gli agenti della difterite o del tetano, causano malattie legate alla produzione di tossine. Le tossine, dopo essere state trattate con agenti chimici per essere rese inattive, vengono chiamate anatossine e perdono la loro capacità di causare danni all’organismo ma mantengono quella di dare risposta immunitaria e possono perciò essere usate per allestire dei vaccini appositi. Questa scoperta si deve nel 1890 a Emil Adolf von Behring e a Shibasaburo Kitasato che lavoravano insieme all’Istituto di Igiene di Berlino. Ma perché si abbia una risposta immunitaria non è certo necessario che il patogeno sia vivo, poiché infatti, come abbiamo detto, il sistema immunitario riconosce alcune molecole e strutture di virus e batteri. Sono stati così perfezionati e messi in uso i vaccini inattivati. E sempre contro la poliomielite è stato con successo usato il vaccino di Salk, che ne annunciò la scoperta nel 1955. Ma il vaccino per la pertosse lo aveva preceduto nel 1926. Un vaccino inattivato si ottiene trattando il microrganismo in modo che sia incapace di replicarsi ma capace ancora di dare immunizzazione. Nel caso del vaccino di Salk, l’inattivazione è fatta con formolo ma può avvenire con altri mezzi chimici come acetone e fenolo, o fisici come il calore e raggi ultravioletti.
Vaccini ad antigene purificato, a Dna ricombinante e a Rna
Il passo successivo è stato cercare di formulare vaccini che fossero composti solo da quelle porzioni di microrganismo capaci di attivare la risposta del sistema immunitario. Una volta infatti identificata la porzione molecolare che l’organismo riconosce come estranea, l’antigene, sono stati progettati vaccini che permettono di somministrare solo queste porzioni altamente purificate. Sono preparati in questo modo i vaccini contro il meningococco e per la pertosse acellulare.
L’avvento delle tecniche di ingegneria genetica negli anni ’80 del ventesimo secolo ha reso la ricerca sui vaccini orientata a nuovi sistemi senza dover ricorrere al patogeno integrale.
Seguendo quindi il modello dei vaccini ad antigene purificato è stato possibile giungere a vaccini efficaci come quello per l’epatite B. Nel caso di questa tecnica, una volta identificata la proteina che si vuole ottenere in grandi quantità, si fa sì che un batterio diventi capace di sintetizzarla partendo dalla porzione di DNA che ne porta le istruzioni. La proteina ottenuta sarà usata per la vaccinazione. Con l’emergenza causata dal Coronavirus responsabile della Covid-19, è entrato per la prima volta in uso il vaccino a RNA, una tecnica in sperimentazione da circa dieci anni. Per comprenderne il funzionamento, e come sia impossibile che un vaccino a RNA possa modificare il nostro DNA, cioè la nostra informazione genetica, è necessario comprendere bene cosa sia e a cosa serva l’RNA. All’interno delle nostre cellule il doppio filamento di DNA è contenuto nel nucleo, un organello con una propria parete che permette di tenere separata la nostra informazione genetica dal resto del materiale cellulare. Il DNA è costituito dalla sequenza dei nostri geni e la sua funzione è di racchiudere e preservare le informazioni essenziali per la sopravvivenza delle cellule. Secondo un vecchio modo di dire, da ogni gene si ottiene una proteina, cioè il DNA è un codice che permette di sintetizzare le proteine di cui le cellule hanno bisogno. La loro sintesi però non avviene nel nucleo ma nello spazio cellulare, chiamato citoplasma, a opere di strutture a questo preposte. Perché l’informazione passi dal nucleo al citoplasma interviene l’RNA. Infatti, all’interno del nucleo, un filamento di DNA fa da stampo per una molecola di RNA messaggero (mRNA).
Questo filamento di RNA viene quindi modificato per poter essere trasportato fuori dal nucleo attraverso un procedimento a senso unico: l’mRNA che si trova nel citoplasma non rientra nel nucleo e comunque non sarebbe capace in alcun modo di integrarsi con il DNA. Nel citoplasma avviene la produzione delle proteine codificate dall’mRNA.
Questa codifica non è illimitata nel tempo, poiché infatti l’mRNA viene degradato rapidamente e termina la sua funzione.Nel caso del coronavirus causa della pandemia, le case farmaceutiche hanno ottenuto la sequenza per la proteina di superficie caratteristica del virus, che permette al sistema immunitario di attivarsi e mettere in moto le sue strategie di difesa. Somministrando quindi il vaccino a mRNA, si stimolano le cellule a sintetizzare solo un frammento innocuo di quello che è il virus intero, e a rilasciarlo in circolo in modo che venga identificato come estraneo dall’organismo. In alcun modo l’mRNA del vaccino potrà entrare nel nucleo cellulare. La sua azione sarà solo a livello del citoplasma. Questa è la prima volta che questo tipo di vaccino viene usato su così tante persone e ancora ci sono alcuni limiti alla nostra conoscenza sulla sua efficacia.
Sappiamo infatti che il vaccino non impedisce di ammalarsi ma fa in modo che la malattia sia molto meno grave e con meno conseguenze per chi si ammala. Questo significa ridurre la mortalità, ma anche ridurre il ricorso ai ricoveri e all’ospedalizzazione.
Ciò permetterà ai Sistemi Sanitari di affrontare meglio le emergenze, ma soprattutto di ritornare a trattare le altre patologie e di fare prevenzione, cose ora messe a rischio dalla carenza del personale per la maggior parte impegnato a contrastare la pandemia.
Quanto dura l’immunità
Un’altra cosa che non sappiamo è quanto dura l’immunità. Anche per alcuni vaccini tradizionali è necessario periodicamente fare il richiamo vaccinale, e forse anche il vaccino contro la Covid-19 lo richiederà. Infine, non sappiamo ancora se chi si ammala, anche se vaccinato, può trasmettere agli altri l’infezione, ma sembra essere molto probabile.
È perciò necessario che la copertura vaccinale sia la più ampia possibile, in questo modo, se dovessimo ammalarci non dovremmo temere un grave peggioramento delle nostre condizioni e, si pensa, che il flagello che ha cambiato le nostre vite diventerà una malattia endemica, presente ma controllabile.
Un vantaggio affatto trascurabile di questa tecnica è che, se il virus dovesse mutare, sarebbe più facile e veloce produrre dei vaccini sempre adatti a stimolare la risposta immunitaria. Ancora più importante è la potenzialità di questi vaccini verso altre malattie, in modo particolare contro i tumori e contro un nemico non ancora sconfitto come l’HIV. Proprio la velocità con la quale è stato prodotto in meno di un anno il vaccino contro la SARS-CoV-2 ha fatto chiedere come mai non sia mai stato trovato un vaccino per l’HIV; anzi, ha riportato in auge la teoria del complotto delle case farmaceutiche, più interessate a vendere il costoso cocktail di farmaci che devono adesso assumere i sieropositivi, piuttosto che trovare una soluzione finale alla malattia.
Il virus HIV è l’esempio di come possa essere difficile trovare un modo per sconfiggere alcuni patogeni, nel caso specifico un virus che è capace di restare nascosto nelle cellule e di usare proprio il sistema immunitario per riprodursi.
Hiv e etica
I virus dell’HIV umano, ne esistono due ceppi, una volta entrati nella cellula bersaglio, integrano la loro informazione genetica con quella dell’ospite e rimangono silenti a lungo. Quando un patogeno è all’interno delle cellule è difficile per il sistema immunitario scovarlo ancora più complicato se la cellula ospite è proprio una cellula del sistema immunitario, nel caso di HIV i linfociti T detti CD4.
Un vaccino efficace dovrebbe essere in grado di intercettare e neutralizzare il virus prima che entri nelle cellule, ma c’è un problema: la grande variabilità del virus che causa l’AIDS.
Poiché le sue proteine di superficie mutano velocemente, può sfuggire al sistema immunitario che non ha armi pronte a combattere ogni variante. Il nostro sistema immunitario, inoltre, si è mostrato incapace di reagire al virus e di dare una risposta immunitaria efficace. C’è in fine da considerare la gravità della malattia e l’impossibilità etica di sperimentare un vaccino. Sebbene le persone sieropositive possano vivere a lungo tenendo sotto controllo la replicazione del virus, quando questo prende il sopravvento e causa la malattia conclamata non dà possibilità di guarigione. Ecco perché non è eticamente pensabile una sperimentazione che usi virus attenuato o virus inattivato.
Protezione antinfluenzale
Un altro virus altamente variabile che non consente di conferire una immunità per tutta la vita è il virus dell’influenza stagionale. A causa proprio di questa sua mutazione annuale, il sistema immunitario si trova ogni anno davanti a un nuovo nemico che non riconosce e per il quale non è preparato. Per evitare quindi le complicazioni derivanti dalla malattia, che può essere particolarmente grave negli anziani e nei più deboli, si consiglia la vaccinazione. Anche in questo caso il vaccino può essere vivo, attenuato o inattivato e può contenere difese per più ceppi virali contemporaneamente, in modo da dare una copertura maggiore.
Per sapere quale saranno i virus influenzali dai quali difendersi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccoglie i dati provenienti dai suoi laboratori per capire quali sono le varianti virali più diffuse.
Quindi viene prodotto già dall’inizio dell’anno il vaccino contro i nuovi ceppi rilevati in modo che ce ne sia a sufficienza in autunno per vaccinare la popolazione. Il vaccino prodotto è nella maggior parte dei casi abbastanza predittivo di quelli che saranno i ceppi influenzali a diffondersi quell’anno ma, appunto perché il virus muta, può non essere efficace al 100%. La probabilità però che sia efficace è molto alta e limita i rischi per i soggetti più vulnerabili.
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Malattie infantili
Di un vaccino si valuta l’efficacia immunizzante, cioè la capacità di stimolare una risposta con la produzione di anticorpi, e l’efficacia protettiva, ossia l’effettiva capacità di proteggere dalla malattia. Perché una malattia circoli in modo limitato nella popolazione, tale da trovare preparati i Servizi Sanitari nel caso si presentasse nelle sue forme più gravi e complicate, è necessario che la vaccinazione sia diffusa. Si può ritenere che una buona immunizzazione di massa sia raggiunta quando il 95% della popolazione è vaccinata. Questo valore però è molto variabile, dipende dalla contagiosità di una malattia, e vale solo per le malattie che si trasmettono da uomo a uomo. Quando si ottiene un’ampia copertura vaccinale si parla di immunità di gregge.
Se in un primo momento la vaccinazione si concentrò sulle malattie i cui esiti erano maggiormente nefasti, oggi disponiamo di vaccini anche per le malattie che fino a qualche tempo fa erano considerate tipiche dell’infanzia, come morbillo o varicella.
Ridurre la circolazione di queste malattie significa evitare le forme gravi che possono portare, ad esempio nel caso del morbillo, a polmoniti o encefaliti fino alla morte. È inoltre necessario difendere i soggetti più fragili che non possono essere vaccinati, come le persone con un sistema immunitario meno forte o compromesso, il cui organismo non sarebbe capace di combattere una malattia che per la maggior parte delle persone è senza conseguenze durature.
La possibilità quindi di avere vaccini per più malattie è una conquista del nostro progresso, eppure sulla vaccinazione si sono diffuse notizie infondate e movimenti antivaccinisti.
Scandali, frodi e effetto No-vax
È bene però subito chiarire che il movimento No-vax, sebbene faccia molto rumore, conta in Italia su una base di circa l’1% della popolazione. Si tratta di persone che rifiutano in assoluto la vaccinazione. Molto più larga è la fetta di quelli che chiedono maggiori informazioni sull’argomento per fare serenamente le proprie scelte.
Sorveglianza #vaccini #COVID19: 7.337 segnalazioni su 1.564.090 dosi somministrate. Nel 92,4% dei casi riguardano eventi non gravi come dolore in sede di iniezione, febbre, stanchezza, dolori muscolari pic.twitter.com/I3HwMZnanx
— AIFA (@Aifa_ufficiale) February 4, 2021
L’opposizione ai vaccini non è certo cosa nuova se già Kant, alla scoperta di Jenner, parlava di pratica innaturale e persino Gandhi la riteneva qualcosa di “sporco”.
Nella storia si sono verificati poi degli incidenti tali da creare diffidenza e sospetto. Ad esempio, nel 1933, ventotto bambini del piccolo comune veneto di Gruaro, morirono durante la sperimentazione di un vaccino contro la difterite. L’errore di preparazione del vaccino attenuato fu fatale e venne per anni nascosto dal regime fascista. Un altro episodio si verificò nel 1955 negli Stati Uniti durante la campagna antipolio. Prese il nome di “incidente di Cutter” dal nome della casa farmaceutica che aveva prodotto male un vaccino attenuato che aveva causato l’insorgenza della poliomielite in 79 bambini vaccinati.
Altre tristi storie, come la scandalosa sperimentazione di Tuskegee in Alabama con centinaia di afroamericani usati come cavie da laboratorio per oltre quarant’anni, dagli anni ’30 ai primi anni ’70, o il “contenzioso di Kano” nel 1996, che vede coinvolta la Pfizer in un caso di sperimentazione non autorizzata su migliaia di bambini nigeriani, hanno contribuito ad aumentare il sospetto verso enti di ricerca e case farmaceutiche.
Sicuramente però è stata nel 1998 la truffa messa in atto dal gastroenterologo Andrew Wakefield a dare il via alla falsa correlazione tra vaccinazione e autismo. L’allora medico inglese, nel frattempo radiato dal registro nazionale britannico, pubblicò infatti sulla prestigiosa rivista medica Lancet una ricerca secondo la quale il vaccino trivalente MPR (contro morbillo, parotite e rosolia) era correlato alla diagnosi di autismo nei bambini vaccinati. La notizia destò subito interesse, ma anche scetticismo nel mondo scientifico. In seguito a una inchiesta approfondita, Lancet fu costretta a ritirare l’articolo.
Si scoprì che Wakefield aveva alterato i dati pubblicati dopo aver ricevuto un pagamento da parte di uno studio legale per dare sostegno a cause milionarie intentate contro i produttori del vaccino. Fu anche accusato di aver screditato il vaccino trivalente per avvantaggiarne uno da lui progettato.
Vaccini e autismo, una correlazione mai provata
Nonostante la radiazione del medico e il ritiro dell’articolo il danno era ormai fatto, creando una crisi di fiducia verso le cause farmaceutiche e alimentando il complottismo.
Negli anni ’90 si diffuse anche la notizia falsa che il vaccino esavalente fosse causa della sindrome della morte in culla, ma anche in questo caso non è mai stata trovata alcuna correlazione.
La diffusione di false notizie e dei complottismi, alimentata dalla creazione di “echo chambers” sui social media, mina costantemente la credibilità di quella che è stata e che resta un’arma e un progresso medico eccezionale contro le malattie.
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Se è vero che può sembrare strano un intervento medico come la vaccinazione su una persona sana, non si dovrebbero mai dimenticare le conseguenze nefaste delle malattie che la vaccinazione hanno fronteggiato. Solo fino a pochi decenni fa la paralisi infantile lasciava i suoi segni sui bambini, costringendone alcuni alla vita nel polmone d’acciaio, il vaiolo era ancora temibile, e si contavano le vittime della difterite o del tetano. Le vaccinazioni hanno dimostrato nella storia la loro sicurezza e affidabilità e l’indubbio vantaggio che mai come ora possiamo vedere: proteggerci da un nemico inaspettato e aiutarci a ritrovare la socialità che abbiamo perduto.
Saperenetwork è...
- Calabrese di nascita ma, ormai da dieci anni, umbra di adozione ho deciso di integrare la mia laurea in Farmacia con il “Master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza” dell’Università di Ferrara. Arrivata alla comunicazione attraverso il terzo settore, ho iniziato a scrivere di scienza e a sperimentare attraverso i social network nuove forme di divulgazione. Appassionata lettrice di saggistica scientifica, amo passeggiare per i boschi e curare il mio piccolo orto di piante aromatiche.
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