Rodrigo Morganti, direttore della Fondazione Dottor Sorriso

Con i “Nasi rossi” in ospedale, per far sorridere i bambini. Intervista a Rodrigo Morganti

A tu per tu con il direttore artistico della Fondazione Dottor Sorriso, che da oltre trent’anni usa la clownerie per rendere meno traumatico il percorso dei piccoli degenti ospedalieri. Un’attività alla scoperta di nuove possibilità e speranze, con l’aiuto del personale medico

Ricostruire, grazie alla magia di un sorriso, le difese del bambino di fronte al trauma del ricovero in ospedale: è l’obiettivo della Fondazione Dottor Sorriso che opera in Italia da quasi 30 anni. Rodrigo Morganti è il direttore artistico della Fondazione, uno dei “Nasi Rossi” che cercano di rendere più serena e meno traumatica la degenza dei piccoli pazienti all’interno di strutture sanitarie e istituti per disabilità, in stretta collaborazione con il personale medico. A Sapereambiente ha raccontato il suo impegno e quello della Fondazione, che supporta ogni anno circa 36mila bambini ed è presente attualmente in 33 reparti pediatrici di 21 strutture ospedaliere, in un hospice pediatrico e in cinque istituti per disabilità distribuiti in 12 province italiane.

Per tutto il mese di aprile è in corso la campagna solidale “La magia di un sorriso”, alla quale è possibile contribuire attraverso sms o chiamata da rete fissa al 45597 per sostenere le attività della Fondazione.

 

Rodrigo Morganti, direttore della Fondazione Dottor Sorriso, all'opera in un ospedale
Rodrigo Morganti all’opera in un ospedale

 

Morganti, che cosa significa essere il direttore artistico della Fondazione Dottor Sorriso?
Significa lavorare con tutti i nostri dottori del sorriso per cercare di migliorare il nostro modo di intervenire. Vado a osservarli in ospedale, cercando di dare consigli e di capire come possiamo migliorarci, e lavoro alle formazioni. Ogni anno facciamo tre formazioni, con tutto il gruppo dei clown per cercare di capire quali sono i bisogni del gruppo e i temi su cui concentrarci. Significa anche capire quali nuovi progetti ci possiamo inventare. Faccio un esempio: quando abbiamo iniziato andavamo nelle pediatrie generiche, poi piano piano, attraverso i feed back degli ospedali in cui collaboriamo, sono nati progetti fantastici, come l’accompagnamento chirurgico oppure il nostro lavoro in un ospedale dove seguiamo ragazzi diversamente abili che devono fare cure odontoiatriche.

Quindi lei gira nei vari ospedali?
Sì, ieri ero a Modena, in coppia con un altro Dottor Sorriso, e recentemente ero in un istituto dei tumori. Per me è molto importante non perdere il contatto con il lavoro nelle strutture sanitarie. Poi sono anche in ufficio, in Fondazione, e in spazi dove lavoriamo alle formazioni.

 

 

In quali reparti lavorate prevalentemente?
Abbiamo provato a specializzarci nelle lunghe degenze e nell’alta intensità. Però dipende molto dagli ospedali in cui lavoriamo. Da pochissimo abbiamo iniziato nel day hospital dell’Istituto dei tumori, facciamo accompagnamento chirurgico al Niguarda, stiamo in chirurgia al Bambin Gesù. Un altro progetto che funziona è quello presso il reparto di oncoematologia all’ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Alta intensità non è terapia intensiva, sono ricoveri lunghi o situazioni gravi senza che sia la terapia intensiva. Anche se a volte in alcune ci hanno chiamato. Cerchiamo di essere presenti regolarmente, una volta a settimana, in ogni reparto in cui collaboriamo. Anche per creare un’attesa, per esempio nelle lungo degenze: i bambini sanno che il giovedì arriveranno il dottor Pasticcio e il  dottor Marrangio e si crea un’aspettativa.

Com’è la giornata lavorativa di un Dottor Sorriso?
Parlo della routine negli ospedali dove lavoriamo, perché quando lavoriamo a chiamata è un po’ diverso. Arriviamo, ci cambiamo e ci facciamo dare una consegna dalle infermiere, di solito dalla capo sala, che ci dice che cosa hanno i vari pazienti che andremo a incontrare, per capire sia psicologicamente che dal punto di vista igienico da chi dobbiamo iniziare e con chi dobbiamo finire. Naturalmente iniziamo dalle persone che hanno le difese immunitarie basse per poi lavorare con i pazienti per così dire ‘generici’, per finire dagli infettivi quando possibile. Va detto che noi siamo una figura che ha la fortuna di poter bussare alle stanze dei bambini e chiedere se siamo graditi o no. Una parte del nostro lavoro è accettare i no. Ed è uno dei lavori che faccio soprattutto nel corso iniziale quando scegliamo i professionisti che lavoreranno con noi. Perché spesso come artista dici “provo, provo, provo” mentre a volte rispettare un no ti aprirà molte porte in un futuro.

 

 

 

I no sono più dei bambini o dei familiari?
Possono essere dei bambini, dei familiari, a volte anche degli infermieri per motivi igienici o psicologici. Alle volte sono dei no interpretabili, diciamo. Però è molto buono rispettarli. Altre volte invece sono i genitori a chiederci di venire.

Avete tutti un nome da clown, qual è il suo?
Il mio è Strettoscopio. Lavoro anche in Libano e lì mi chiamo Mabaris, che vuol dire non lo so. Avendo iniziato nel ‘95 ho la fortuna di essere stato chiamato in giro per il mondo.

Come ha cominciato a fare questo lavoro e perché?
Il perché, forse, me lo sto ancora chiedendo, ma è una cosa che mi ha cambiato la vita. Ho iniziato perché mi è stato proposto da un’associazione che lavorava in Svizzera, e che è arrivata a me attraverso i 6mila labirinti che la vita ci regala. Io, all’epoca, ero un artista di strada e facevo spettacoli a feste per bambini. Loro avevano l’idea di aprire in un ospedale in Italia ma non avevano i clown, e il papà di un bambino che mi conosceva ha fatto il mio nome. Quando mi hanno chiamato, ho proposto di fare spettacoli per aiutarli in raccolte fondi ma ero convinto che non avrei mai fatto il clown dottore, avevo molta paura degli ospedali.

 

Guarda il video della Fondazione Dottor Sorriso 

 

Come si fa ridere un bambino malato?
La prendo un po’ alla larga: penso che il clown non debba solo fare ridere, in quanto arte va a toccare tutte le emozioni, con un potere trasformativo che trovo fantastico. Tutto il lavoro che faccio, da quando ho iniziato, è quello di utilizzare la maschera del clown, che Jacques Lecoq definiva la più piccola maschera al mondo, come una possibilità per toglierci le altre maschere. È terapeutico anche per chi lo fa. Attraverso il clown, puoi essere te stesso e la magia succede quando vai in onestà, in apertura.

Noi padroneggiamo molte arti – c’è chi è un bravo giocoliere, chi un bravo musicista, chi un mago o altro – ma in ospedale non andiamo a fare uno spettacolo, andiamo a lavorare sulle emozioni, cercando di rafforzare le emozioni positive dei bambini, affinché il loro corpo attivi endorfine, difese.

Quanto è difficile essere un clown in ospedale?
È difficilissimo, e più parlo della magia e della bellezza del nostro lavoro, più mi rendo conto di quanto sia difficile. In ospedale, però, non c’è tempo per questo pensiero. Quando ricevo la consegna da un’infermiera che mi parla di casi veramente estremi, una delle mie abilità è quella di registrare le cose importanti, da un lato, dall’altro di dimenticarmele. Perché se so tutto lo storico di un bambino, quando entro nella sua stanza mi chiedo che cosa sono venuto a fare. Invece subentra questa cosa molto umana della relazione d’aiuto, che la terapia del sorriso supporta tantissimo, che è il vivere il momento in cui ci si incontra e lavorare sulle emozioni che si sviscerano in quel momento. Per questo, e perché penso che non si è mai abbastanza pronti, il mio lavoro è di continua formazione, degli altri e naturalmente di me stesso.

È un ottimista?
C’è una cosa magica degli indiani nativi americani: per loro la medicina è essere in grado di vedere la bellezza della vita. Questo ha molto a che fare con il clown. Nella mia vita di tutti i giorni sono sia ottimista che pessimista, ma secondo me anche la clownerie o il lavoro nella relazione d’aiuto è un lavoro molto spirituale, in senso lato. Credo molto nella bellezza della vita in tutte le sue manifestazioni, nel potere delle persone e nella socialità. Penso che poter condividere determinate situazioni, se fatto in modo professionale, perché noi siano degli estranei per le famiglie, possa aiutare molto. Credo tantissimo in quello che facciamo.

 

Saperenetwork è...

Alice Scialoja
Alice Scialoja
Alice Scialoja, giornalista, lavora presso l'ufficio stampa di Legambiente e collabora con La Stampa e con La Nuova Ecologia. Esperta di temi ambientali, si occupa di questioni sociali, in particolare di accoglienza. Ha pubblicato il libro A Lampedusa (Infinito edizioni, 2010) con Fabio Sanfilippo, e i testi Neither roof nor law e Lampedusa Chapter two nel libro Mare Morto di Detier Huber ( Kerber Verlag, 2011). È laureata in Lettere, vive a Roma.

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