Un fotogramma de "La zona di interesse" (Crediti delle immagini dell'articolo: Courtesy of A24)

Ci sono visioni che, durante la notte, è facile si mescolino tra loro, tormentando il sonno con l’ineluttabilità del loro dramma. Può accadere spesso in questa stagione cinematografica. Da Green Border di Agnieszka Holland, al documentario 20 Days in Mariupol di Mstyslav Chernov fino a La zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer, il cinema europeo pare riflettere con una certa insistenza sulla natura umana. Se pur con modi e stili del tutto diversi, tocca differenti tragedie umanitarie, tutte rigorosamente reali e non frutto dell’immaginazione: migrazioni, guerra, olocausto. In ognuna delle tre situazioni, al centro di ciascun lungometraggio, vale la frase pronunciata da un medico ucraino, durante l’assedio di Mariupol filmato dai reporter di The Associated Press:

«la guerra è come una radiografia, tira fuori quello che hai dentro».

In tutti e tre, il confine torna a essere al centro della narrazione: tra Polonia e Bielorussia, dove i diritti umani vengono negati nel colpevole silenzio dell’Europa; tra Russia e Ucraina, dove si combatte per la sopravvivenza degli esseri umani e – in qualche modo – della verità; tra il campo di concentramento e la graziosa villetta dove abita Rudolf Höss, il comandante che la Storia ricorda come “l’animale di Auschwitz”. In tutti e tre la natura appare come un curioso accidente, rigogliosa e indifferente, comunque bellissima, dalla monumentale foresta vergine di Białowieża (iscritta sulla lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO) con le alci fino alle aiuole stracolme di fiori colorati curate a ridosso del campo di sterminio.

 

Il regista Jonathan Glazer

Campi di orrore dentro la bellezza

Dei tre film, quello da cui – forse – si farà più fatica a uscire è La zona d’interesse, Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, tra i 5 film migliori secondo il National Board of Review Award, tre BAFTA (miglior suono, miglior film britannico e miglior film in lingua non inglese), 5 nomination agli Oscar (miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura non originale, miglior film internazionale, miglior suono), tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis del 2014 (pubblicato in Italia da Einaudi nel 2015).

La Interessengebietla zona di interesse, è il nome che le SS diedero, nel 1941, a un’area di circa 40 chilometri quadrati che comprendeva Auschwitz I, Auschwitz II Birkenau e alcuni sottocampi.

Fu istituita dopo l’espulsione di polacchi ed ebrei dai villaggi vicini così da evitare ci fossero testimoni dei crimini nazisti e allo stesso impedire ogni tipo di contatto tra prigionieri e mondo esterno. Un po’ come la zona riservata, interdetta a stampa e aiuti umanitari, sulla frontiera che oggi divide il Paese dalla Bielorussia: un confine verde. Attraversata dalla Soła, affluente del fiume Vistola, la natura in questo spicchio di Polonia è oggi come allora incontaminata e fertile, popolata da una variegata fauna selvatica. Da questa terra, nel 1943 furono espulse circa 9mila persone, i terreni confiscati e le case demolite. Il materiale da costruzione così ottenuto venne utilizzato per costruire le baracche nel campo di Birkenau. Successivamente, le SS organizzarono otto sottocampi nella zona. I prigionieri di questi sottocampi lavoravano nei campi, allevavano animali e curavano gli stagni con i pesci.

 

Il paradiso della famiglia Höss

Comandante del campo di concentramento era Rudolf Höss, ingegnoso nel trovare modi sempre più efficienti per uccidere ebrei, zingari, omosessuali e prigionieri politici. Il soldato di carriera perfezionò metodi di gasazione che potevano uccidere 10.000 vittime in 24 ore. «Devo ammettere che l’uso dei gas ebbe un effetto calmante su di me. Ho sempre avuto orrore degli spari, specie pensando al gran numero di persone, donne e bambini. Fu un sollievo che ci venisse risparmiato questo bagno di sangue», dichiarò Höss. Riecheggiano le atroci pagine de La benevole (pubblicato nel 2006 e uscito in Italia sempre per Einaudi) in cui Jonathan Littell fa rivivere gli orrori della guerra dal punto di vista ripugnante del suo protagonista, Maximilien Aue.

 

 

Nel romanzo di Amis, tra le tre voci narranti c’è quella del comandante del Kat Zet, Paul Doll, personaggio cinico, spietato e grottesco. Sul grande schermo torna a essere Rudolf Höss (interpretato da Christian Friedel), sposato con Hedwig Hensel (col volto di Sandra Hüller, già apprezzatissima in Anatomia di una caduta, e qui, se è possibile, ancora più brava), padre amorevole di cinque figli con cui vive in una villa a due piani in stucco grigio, con piscina in giardino, dove crescono dalie ubertose e filari di piante da frutto, e i bambini possono giocare in un recinto con la sabbia e uno scivolo. È lì che li trova la sera, tornato dal lavoro, immacolato nella sua uniforme, pronto a leggere fiabe e sempre disposto a gite in barca sul fiume vicino: non un luogo normale, un vero e proprio “paradiso”, come più volte viene chiamato da Hedwig. Certo, dalle finestre del piano superiore della vicina caserma di mattoni rossi e del crematorio c’è una brutta vista e i suoni che arrivano da oltre il muro a volte  sono insopportabili, per non parlare della cenere che, dagli alti camini dei forni dirimpettai, di quando in quando si posa qua e là; ma sono solo piccoli difetti, funzionali a una vita da sogno.

Riprese “asettiche” a distanza

Jonathan Glazer evoca, non mostra, dando vita a un vero e proprio film horror grazie all’assenza dell’orrore e ai suoni dell’ambiente, bagnando ogni immagine di una luce naturale fredda e asettica. Con lo scenografo, Chris Oddy, ha ricreato la villetta degli Höss accanto ad Auschwitz, dove il reparto ha trascorso quattro mesi a coltivare e abbellire l’area del giardino prima delle riprese: sul set, dieci telecamere fisse (gestite in remoto da una squadra di cinque addetti alla messa a fuoco) giravano simultaneamente nelle diverse stanze diverse, così da creare un’estetica intima ma distaccata, che ricorda i reality show come il Grande Fratello.

Senza troupe e con le telecamere integrate nella scenografia, gli attori erano in grado di muoversi con totale libertà all’interno di un sistema costruito meticolosamente. «È un modo molto strano di fare un film, ma era l’unico modo in cui potevo farlo. Volevo capire la distanza: quanto volevo essere lontano dai personaggi e quanto volevo che loro lo fossero da me» ha spiegato Glazer.

«Credo che ci fosse bisogno di una sorta di distanza critica. Non era perché avessi paura di toccarlo: più che altro volevo esaminarlo dal punto di vista forense. Quasi antropologicamente».

A fare da contraltare, le immagini termiche con cui racconta, a sprazzi, di una adolescente che cammina nei boschi intorno al campo di concentramento, che suona, che raccoglie mele e pere, le lascia. Un personaggio – o meglio un’energia, come l’ha definita il regista – che vive, ed è raccontata, all’opposto della famiglia Höss, costruita sui ricordi di una giovanissima partigiana polacca conosciuta ormai novantenne da Glazer, che nelle fila della resistenza polacca andava a dar da mangiare di nascosto ai prigionieri dei campi.

Indifferenza e disumanità

Inutile cercare della consolazione in quelle immagini. Se lo scopo ultimo era riuscire a non rendere glamour nessuna delle inquadrature, affrontando l’olocausto con un approccio “forense”, non è dato trovare né un senso, né una spiegazione, né tanto meno una giustificazione: alle atrocità perpetrate dai nazisti si aggiunge l’atrocità nel loro normale e banalissimo quotidiano. Così, dopo giorni dalla visione, potrebbe essere difficile liberarsi dal più grosso terrore che assale al cinema e così ben raffigurato dallo stesso regista: «La cosa di cui abbiamo più paura, suppongo, è che potremmo essere loro. Erano esseri umani».

Agnieszka Holland e Mstyslav Chernov mostrano e dimostrano che, dopo meno di 80 anni, sono ancora esseri umani e noi potremmo ancora essere loro e forse, con la nostra indifferenza, in qualche modo lo siamo.

In sala con I Wonder Pictures dal 22 febbraio 2024, La zona d’interesse è un film imperdibile, che con difficoltà ci lascia come ci ha trovato.

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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