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Tutto è grande se sai essere piccolo. La metafora liquida di “The magnitude of all things”

La malinconia che deriva dai ricordi d’infanzia, segnati dalla morte della sorella, insieme alla consapevolezza per le ferite che l’antropizzazione selvaggia infligge all’ecosistema. Un viaggio fuori e dentro di sé accompagnato dall’elemento alla base della vita, l’acqua

Recensione di Giulia Berni

L’acqua come forma di vita, trasformazione e passaggio. L’acqua che cade dalla pioggia, lo scroscio d’acqua che corre lungo i sassi in un bosco, il rumore dell’acqua di un fiume che si sposta al passaggio di una canoa. L’acqua che scorre sempre nonostante tutto, “panta rei”. Quando ci immergiamo nell’acqua è come se compissimo un passaggio: dallo strato terrestre passiamo a quello marino in cui tutto è fluido, il silenzio pervade i sensi e rimaniamo soli in ascolto dei rumori quasi impercettibili mentre le bolle d’aria escono fuori dal naso.

Ciak. La voce della regista Jennifer Abbot ci parla e fa da sfondo al documentario “The magnitude of all things”, ci culla tra le immagini nelle quali si intrecciano dolori differenti ma tutti prossimi.

È tramite la metafora dell’acqua che la regista racconta il dolore per la morte della sorella, ricordando momenti dell’infanzia e adolescenza in cui trascorrevano spensierate e felici giornate nella natura, toccando foglie, camminando scalze sulle distese di muschio, immergendosi nelle acque della Georgian Bay (sulla sponda canadese dell’Ontario) e lasciandosi trasportare dalla canoa mentre solcava le sue acque. Nel montaggio questi ricordi malinconici e dolorosi, a seguito della morte di Saillie, si intrecciano al dolore che la terra sta manifestando a causa della forte antropizzazione che scaturisce con violenza nei cambiamenti climatici che, tramite eventi meteorologici estremi, stanno causando dolore, disperazione, danni economici e morte.

Dall’estremo nord nella terra degli Inuit alla Grande Barriera corallina in Australia, dalla Repubblica di Kiribati alla foresta Amazzonica fino a Londra e Stoccolma le scene del documentario ci portano nel mondo a capire quali sono gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Le riprese, tramite le interviste a più personaggi, ci mostrano come tante popolazioni stanno già vivendo questi effetti a livello mentale, sociale, economico e ambientale.

Sulla pellicola rimangono impresse le lacrime dell’artista Sarah Baike, anziana di  Nunatsiavut, per la scomparsa di una porzione di terra e quindi l’impossibilità di compiere molti degli spostamenti. Oppure la tristezza di Mukutsawa Montahuano, giovane attivista di Sápara Nation, per la consapevolezza di non vivere nella stessa natura incontaminata in cui vivevano gli anziani del suo popolo e per lo sconforto di sapere che molte specie animali si stanno estinguendo perché «siamo tutti parte di un mondo».  E ancora la perseveranza di Anote Tong, Presidente della Repubblica di Kiribati, che da anni si batte, a livello politico, contro l’ingiustizia climatica e per portare all’attenzione mondiale gli effetti del riscaldamento globale perché saranno proprio le sue isole che per prime spariranno per l’innalzamento del livello del mare.

 Fino alle riprese e alle interviste con gli esponenti di Extinction Rebellion, Bushfire Survivors for Climate Action o con Greta Thunberg e Patricia Gualinga (Humans Right Defender, Kichwa People) che grazie alle loro proteste, azioni e parole portano all’attenzione mediatica e politica il flagello globale della crisi climatica.

Per Jennifer Abbot occorre resistere e proseguirei di fronte alle difficoltà e alle ingiustizie:

«Siamo tutti luce – ricorda – Tu sei luce io sono luce. Non siamo oscurità. Se siamo nell’oscurità possiamo convertirla in luce. L’oscurità sta solo nella nostra mente, qui nella coscienza di ognuno di noi».

 


 

Il film è stato visto nell’ambito del “Riviera International Film Festival” di Sestri Levante, maggio 2021. La recensione è stata prodotta nell’ambito del Corso di giornalismo ambientale e culturale di Sapereambiente

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Sapereambiente

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