Cinque scrittori di wilderness che dovete conoscere

Dal contatto personale con il selvaggio e dallo studio di esso, gli autori e l’autrice che raccontiamo oggi elaborano pensieri ecologici e sistemici del mondo e dell’interazione degli esseri umani con il pianeta. Spaziando dalla poesia alla filosofia

Attraverso pagine di inchiostro hanno trasferito le proprie esperienze nella natura selvaggia, per narrare il rapporto tra essere umano e ambiente. Vi presentiamo cinque scrittori che, dal 1800 ai giorni nostri, hanno fatto della wilderness il fulcro delle proprie opere.

Henry David Thoreau

Il nostro viaggio non poteva che partire da Henry David Thoreau, teorico della wilderness per eccellenza e ancora oggi tra i più celebrati scrittori di natura, per la ricchezza della sua opera ma anche per l’attualità del suo pensiero. Vissuto a metà dell’Ottocento nel contesto protocapitalista statunitense, Thoreau elabora le sue riflessioni grazie all’esperienza diretta nei boschi ma anche al confronto costante con il filosofo esistenzialista, nonché amico di una vita, Ralph Waldo Emerson.

Voce ribelle e irriverente, scuote la tranquillità di vite di “calma disperazione”, schiave delle pulsioni materialistiche.

Per oltre quindici anni ispira diari ricchi di impressioni e ispirazioni, nei quali sono contenute pagine divenute simbolo della disobbedienza civile e della riscoperta di sé nel selvaggio.

 

Henry David Thoreau

 

Indimenticabile è “Walden”, opera in cui egli narra della sua esperienza di vita, durata quasi due anni, in una piccola casa nel bosco di fronte al lago Walden a Concord, nel Massachussetts. Thoreau legge con costanza e si dedica in egual misura alle passeggiate nei boschi, dove si abbandona come un bambino al senso di meraviglia e al gioco in natura: svegliandosi emozionato al sorgere del sole, prendendo nota delle sensazioni vissute a piedi nudi, sdraiandosi sul ghiaccio.

I suoi sono testi ricchi di esercizi spirituali che affondano le radici nella dimensione interiore quanto nell’esperienza fisica della natura, che va contemplata, ascoltata, toccata, respirata.

Il mondo selvaggio in Thoreau non è solo fuga da un modello che soffoca la creatività e il libero arbitrio dell’essere umano, bensì la costruzione di un ideale diverso nel quale affidarsi ai sogni e costruire fondamenta ai nostri castelli in aria, è un dovere morale. Una nuova vita che abbandona ogni avidità e pulsione materialistica, abbraccia il minimalismo e ridisegna una dimensione “aristocratica”, intesa come lusso del tempo ritrovato, dell’accordo con i cicli naturali e dell’accrescimento dello spirito che gode della bellezza sublime della natura selvaggia.

John Muir

John Muir è considerato il secondo tra i più importanti teorici della wilderness nel contesto culturale statunitense. In realtà, Muir nasce in Scozia nel 1838, nell’East Lothian, un’area che dal punto di vista naturalistico è ancora oggi tra le più interessanti del panorama scozzese. Ma sono le montagne della Sierra Nevada, in California, a celebrarlo come ambientalista, scrittore e divulgatore di natura. Emigrato negli Stati Uniti insieme alla famiglia all’età di dieci anni, cresce in una fattoria del Wisconsin e si avvicina ben presto allo studio delle scienze naturali, mostrando un particolare interesse nei confronti della botanica.

 

John Muir

 

Ma la natura “lo chiama” e così decide di abbandonare le polverose aule dell’università per iscriversi a quella che egli stesso chiamerà la University of Wilderness: un’esperienza di viaggio nelle aree selvagge dell’Alaska e della California che lo formerà come scienziato e scrittore. È così che diviene non solo divulgatore – Muir scrive, come egli dichiara, con in mente lo scopo di trasmettere il suo amore per la natura stimolando nel lettore sentimenti di cura – ma anche attivista, nel senso più moderno del termine. A lui si deve la fondazione della prima associazione ambientalista americana, nata nel 1892 e ancora oggi fiorente: il Sierra Club. Egli si impegna in prima linea per l’istituzione di parchi e aree protette, sostenendo una visione conservazionista di tutela scevra da interessi economici e sfruttamento delle terre selvagge, che rimette in discussione il modello antropocentrico. Scrive Muir:

«Nessun dogma vigente nella civiltà attuale sembra costituire un ostacolo tanto insormontabile per una giusta comprensione dei rapporti che la cultura intrattiene con la natura selvaggia, quanto quello che considera il mondo come fatto apposta per gli usi dell’uomo».

Gary Snyder

Il premio Pulitzer, ecopoeta e filosofo dell’ecologia profonda Gary Snyder è tra i più interessanti scrittori di wilderness contemporanei. Il suo percorso inizia negli anni ’50 del secolo scorso, come studente di antropologia e poi di linguistica all’Università dell’Indiana e infine a Berkeley, dove incontra le lingue e le culture orientali. È proprio lo studio delle filosofie dell’estremo Oriente e in particolare del Buddhismo zen a costituire il tramite attraverso il quale egli incontra e sviluppa un suo personale pensiero ecologico e sistemico sul mondo.

 

Gary Snyder

 

Unendo etica e pensiero razionale (lo sviluppo di una visione ecologica non è infatti questione di sciocchi “umanitarismi sentimentali” bensì una vera e propria strategia di sopravvivenza e benessere per il pianeta tutto) Snyder celebra la natura selvaggia come Madre, come spazio di espressione e relazione, empatia e compassione, fiducia e ascolto, nonché di sviluppo di una felicità autentica, scevra da falsi desideri che consumano e inaridiscono gli animi e le risorse.

Snyder inizia come scrittore della beat generation, evolve poi verso una prosa sociale, ricca di insegnamenti rivolti a comunità e individui, di ispirazioni per un mondo di pace, che l’essere umano può trarre dall’incontro del suo sé più profondo da sperimentare in natura.

Poiché questa “non è luogo da visitare”, è la nostra casa, la nostra consapevolezza. L’esperienza della wilderness diviene così strumento di libertà e di liberazione dalla sofferenza, dalla competizione spietata, dalla fretta, dall’ossessione per la crescita economica, dalla distruzione e dai malesseri “prescritti” dalla società. L’evoluzione di questo pensiero abbraccia il buddhismo come guida per lo sviluppo di una pratica quotidiana dell’ecologia profonda che celebri il valore intrinseco di ogni vita presente sul pianeta. Un percorso che porterà Snyder a ricoprire la cattedra di Wilderness Thought all’Università della California e a essere considerato, ancora oggi, come una tra le più importanti voci dell’ecologia contemporanea.

Aldo Leopold

Co-fondatore della Wilderness Society nel 1935, Aldo Leopold è tra i più importanti filosofi del pensiero ecologico mondiale riguardo al valore delle terre selvagge. La sua opera si sviluppa nell’arco di quarant’anni, durante i quali ha modo di assistere allo sviluppo industriale dell’agricoltura statunitense, che cede il passo a modelli sempre più intensivi, nonché all’alienazione dell’essere umano dalla natura, un processo che ritiene strettamente legato alla progressiva urbanizzazione e all’allontanamento dalle terre. Leopold è innanzitutto un naturalista, che inserendosi nella cornice di quello che diverrà l’approccio standard dell’ambientalismo scientifico, coniuga il senso di meraviglia e di cura al rigore dell’approccio razionale.

 

Aldo Leopold

 

La sua ecologia della terra adotta una visione multidisciplinare e sistemica – che passa attraverso una riflessione su economia e società, nonché sul legame ancestrale e sacro tra il territorio e i suoi abitanti – per ricucire lo strappo tra uomo e natura e comunicare il valore delle aree selvagge in quanto scrigno di meccanismi e processi rigenerativi non ancora pienamente compresi e proprio in virtù di questo limite, bisognosi di essere protetti attraverso un approccio il quanto più possibile prudente e rispettoso. I suoli sono un fragile equilibrio di intrecci: cooperazioni e interazioni tra animali, piante, batteri, di cui le aree selvagge rappresentano un modello prezioso, in quanto specchio di come la terra dovrebbe naturalmente essere. Sono perciò parte integrante del mosaico ma anche garanzia di benessere futuro per l’umanità. Per adoperarci in favore della loro protezione, occorre ricostruire un rapporto di affetto e di gratitudine nei loro confronti. La salute della terra passa attraverso il riconoscimento del valore intrinseco dei suoli. Scrive Leopold:

«Le terre completamente selvagge hanno un’importante funzione che non è ancora stata compresa nella sua interezza».

Nan Shepherd

Poetessa, scrittrice di romanzi e docente di letteratura inglese all’Aberdeen College of Education, Nan Shepherd è annoverata tra le più importanti scrittrici di natura, grazie soprattutto a un magnifico diario delle sue esperienze, buttato giù di getto durante il secondo conflitto mondiale, completato e pubblicato in seguito, dedicato ai Cairngorm, monti selvaggi delle Highland scozzesi.

 

Nan Shepherd

 

In “La montagna vivente”, la natura selvaggia diviene riparo dalle bruttezze della guerra, fonte inesauribile di scoperta e riscoperta della propria interiorità. Nel contatto con il silenzio e l’autenticità della natura, Nan Shepherd elabora riflessioni sui limiti della nostra conoscenza, sull’interconnessione tra tutti gli elementi naturali, sul mistero della vita. Le lunghe camminate, il riposo distesa sui prati, la sensualità della pioggia: la Shepherd vive la natura tramite il corpo, al punto da immedesimarsi totalmente con essa. Scrive:

«Esco dal mio corpo ed entro nella montagna. Sono una manifestazione della sua vita totale, così come la sassifraga stellata o la pernice bianca».

Il contatto con la wilderness permette allora di fare esperienza diretta di quel flusso continuo e dolce che scorre e si manifesta tanto in natura quanto nello spirito, di guardare fuori per guardare dentro, di immergersi nella gioia data dai sensi e di sperimentare l’unione totale di mente e natura, fino a sentire il corpo farsi trasparente. Insomma, di portare magia nel quotidiano. Nell’opera di Nan Shepherd non mancano riflessioni delicate sul ruolo dell’uomo nel tutelare o al contrario danneggiare gli spazi selvaggi della montagna, sulla quale gli scalpiccii di troppi scarponi, il rumore dei bulldozer che sventrano le valli per farne piste da sci, la confusione di ritrovi e locali, compromettono paesaggi dal valore inestimabile e ci allontanano dalla poesia di un’esperienza più sussurrata, eppure tanto più potente.

«In quel mondo convulso e incerto, la natura era il mio rifugio segreto».

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Anna Stella Dolcetti
Anna Stella Dolcetti
Anna Stella Dolcetti, laureata in lingue e culture orientali presso l’Università La Sapienza di Roma, ha conseguito un master in International Management alla Luiss Business School, si è specializzata in Marketing all’Istituto Europeo di Design e in Green Marketing all’Imperial College di Londra. È vincitrice e finalista di competizioni dedicate alle nuove tecnologie (Big Data e Blockchain) e lavora nella comunicazione per aziende ad alto tasso di innovazione. È diplomata in "sommellerie" e appassionata di alimentazione naturale. Nel tempo libero passeggia nei boschi, scala montagne e legge avidamente di biologia, astronomia, fisica e filosofia. Crede fermamente nella sinergia tra metodo scientifico e cultura umanistica e nell’utilizzo delle nuove tecnologie al servizio di etica, rispetto e sostenibilità sociale e ambientale.

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