Nell'ultimo film del grande regista tedesco, la ricerca della bellezza nel piccolo mondo quotidiano, ogni giorno

Dal 4 gennaio di quest’anno, a chiunque mi chieda cosa vedere in sala, continuo a ripetere: Perfect Days di Wim Wenders. Doveva essere un documentario per celebrare il Tokyo Toilet Project, 17 bagni pubblici ridisegnati da 16 grandi architetti (tra cui Tadao Ando, noto dalle nostre parti per le sue collaborazioni con Giorgio Armani) commissionato al regista tedesco dall’amministrazione di Shibuya, celebre quartiere della città nipponica. Ne è uscito un incredibile inno alla vita e alla bellezza del mondo.

 

Wim Wenders, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico

 

È uno dei 15 titoli contro cui dovrà vedersela il “nostro” Io Capitano, di Matteo Garrone, per essere tra i 5 candidati agli Oscar come miglior film internazionale, insieme ad altri gioielli come Foglie al vento di Aki KaurismäkiLa zona di interesse di Jonathan GlazerPast Lives di Celine Song: con buona pace di quanti continuano a presagire la morte del cinema.

 

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Un attimo è un attimo

Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2023, il film è già valso al suo attore principale il Premio per la miglior interpretazione maschile: Koji Yakushi (sfido a non innamorarsi dei suoi silenzi, le sue espressioni, la sua pacatezza) è Hirayama, un addetto alle pulizie dei bagni cittadini, che conduce una vita scandita da una routine perfetta. L’uomo si alza tutte le mattine alla stessa ora, innaffia le sue piante, fa colazione, si avvia al lavoro ascoltando ogni giorno una canzone diversa, unica nota che differenzia le sue giornate feriali, rigorosamente su musicassetta, e pulisce, con assoluta dedizione, i bagni pubblici, fino alla pausa pranzo, che avviene sempre nello stesso parco, con un sandwich e la sua vecchia macchina fotografica, con cui cattura la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi.

Occasione per scoprire che in giapponese con la parola Komorebi si esprime non solo l’osservazione di quella luce ma anche lo stato d’animo malinconico che ne nasce, nel momento in cui ci ricorda la mutevolezza costante di tutte le cose.

«Un attimo è un attimo e adesso è adesso», sarà il ritornello canticchiato con la nipote adolescente in visita che, anziché rompere la sua routine perfetta, vi si inserisce con grazia e delicatezza, come tutto è grazia e delicatezza in questo prezioso lungometraggio: 123 minuti che voleranno e faranno venir voglia di ricominciare da capo.

 

Di musica in lettura…

E poi? E poi Hirayama, staccato dal lavoro, si lava accuratamente in un sento, una delle celebri vasche comuni in cui si recano gli abitanti di Tokyo sprovvisti di una vasca in casa; quindi la cena in un piccolo e dignitoso locale e la lettura prima di addormentarsi. Un rituale che si ripete sempre uguale fino alla domenica, quando si dedica invece a stampare e conservare le sue fotografie, a pranzare in un ristorante, ad acquistare un libro usato sempre nella stessa libreria. E come molta della sua musica preferita arriva d’oltreoceano, da Patti Smith a Lou Reed, i Rolling Stones e una versione giapponese, splendida, di The House of the Rising Sun, così molta della letteratura è americana, come Le palme selvagge di William FaulknerUrla d’amore di Patricia Highsmith, accanto alla nipponica Aya Koda.

 

 

Eppure siamo distanti da un ossessivo-compulsivo: le azioni di Hirayama, in un rispetto per il bene comune commovente per quanto distante dalla mentalità di casa nostra, sono piuttosto un susseguirsi di gesti rituali che in qualche modo danno un ordine allo spazio e al tempo, quasi fosse un monaco laico. E non a caso, si ha più volte la sensazione che da un momento all’altro, il gentile addetto delle pulizie stia per volare via, come fosse l’angelo Bruno Ganz de Il cielo sopra Berlino.

…assaporando la vita

«La bellezza di un ritmo così regolare, fatto di giornate “tutte uguali”, è che inizi a vedere tutte le piccole cose che non sono mai le stesse ma che cambiano ogni volta. Il fatto è che se impari davvero a vivere interamente nel qui e nell’ora, non esiste più la routine, esiste solo una catena infinita di eventi unici, di incontri unici e di momenti unici», ha spiegato il regista.

 

 

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A ispirare il film, uno dei grandi maestri del cinema del Sole Levante, Yasujirō Ozu (Shohei Hirayama era il nome del protagonista de Il gusto del saké), del quale Wenders cerca di riprendere il tipico stile essenziale e sottrattivo. Sublime la fotografia di Franz Lustig (che con Wenders ha lavorato anche al recentissimo Anselm, documentario dedicato al celeberrimo Anselm Kiefer) e i sogni in bianco e nero del suo protagonista, opera di Dorothea Wenders, fotografa e moglie del regista. Il formato scelto è in 4:3, quasi a voler rendere ancora più intima e raccolta questa piccola grande storia di un uomo qualunque, pago di sé e grato della vita. Dalla nostra, siamo grati a Wenders, per averci regalato, alle soglie degli 80 anni, questo film:

fatto di cose semplici, impercettibili, che non hanno bisogno di essere spiegate, che non hanno bisogno di una morale, che non hanno bisogno di altro che di sé e della gioia, fugace ma reale, di essere al mondo.

Il film è in sala con Lucky Red, ci si augura ancora per molti e molti giorni.

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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