(Foto: cottonbro, pexels)

2024: tempi duri per i social network! Febbraio: il Sindaco New York annuncia una azione legale contro Tik Tok, Instagram, Facebook, Snapchat e YouTube. Virgolettato dal titolo di RAI News: “Promuovono dipendenza”. Eric Adams ricorda che l’amministrazione spende 100 milioni di dollari all’anno per la salute mentale dei giovani. Marzo: il parlamento americano vota per l’ultimatum a Tik Tok: o vende, o negli Stati Uniti chiude!

Nel frattempo, in Europa si approvano le prime leggi che cercano di regolamentare l’intelligenza artificiale.

Se ci pensiamo, è bizzarro. I social network sono ambienti virtuali in cui le persone, non solo giovani ma di tutte le età, scelgono di passare il loro tempo liberamente, e se ne parla come fossero droghe. L’intelligenza artificiale è uno strumento che dovrebbe semplificare certe attività umane, con le macchine che capiscono cosa devono fare per noi, e se ne parla come di qualcosa che toglie il lavoro, pensa e decide al posto nostro. Dietro questi allarmi ci sono elementi di verità, ma anche una sostanziale ignoranza generale, per cui sui social network discutiamo per lo più per stereotipi, e le idee, speranze, paure riguardo all’intelligenza artificiale ci derivano in gran parte dalle suggestioni dei film e dei libri di fantascienza.

 

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Cosa distingue i nuovi dispositivi

Da anni, in una visione del mondo appiattita sul presente e sul mercato, si celebra il social network di moda come se indicasse la strada maestra verso il “futuro”, fino a quando non ne arriva un altro che diventa più popolare, e allora si decreta la “fine” dei precedenti, non importa se miliardi di persone ci spendono ogni giorno una parte importante della loro vita. E, dopo 40 anni di personal computer e 15 di telefoni “intelligenti” nella nostra vita quotidiana, sembra che ancora non abbiamo capito la differenza fondamentale tra queste macchine e tutte quelle costruite in passato. Cioè: non c’è un utilizzo prestabilito, di base, ma sono insiemi di possibilità praticamente infiniti, a seconda del software, e quindi nessuno ce le può insegnare.

Sono le nostre attività, lavoro, tempo libero, interessi, passioni, che determinano l’uso delle macchine, e tutti noi, anche soltanto come utenti, ne determiniamo poi il peso sociale. Basti pensare che di fatto sono i nostri clic che creano o distruggono i cosiddetti colossi del web.

La nostra passività (televisiva)

Parlare dei social social network e dell’intelligenza artificiale come se fossero estranei che si inseriscono di prepotenza nelle nostre vite, un po’ come gli immigrati clandestini che ci assediano i confini, viene dalla cultura televisiva in cui tutte le generazioni del pianeta sono cresciute dalla seconda metà del 1900, immerse in un intreccio sempre più fitto di narrazioni.

Le narrazioni televisive non solo hanno spostato la nostra conoscenza del mondo dall’esperienza vissuta a quella virtuale, ma anche hanno determinato l’atteggiamento passivo di chi le cose sostanzialmente non le vive, ma le guarda.

Prima c’erano gli operai, i contadini, i borghesi, perfino i giovani come categorie portatrici di istanze diverse. Oggi c’è un pastone indistinto di consumatori di narrazioni e “valori” variamente veicolati dai media vecchi e nuovi, dove l’unica distinzione significativa è probabilmente tra povertà e ricchezza, anche queste però sempre meno determinate dal lavoro, dalla produzione di beni e servizi, cioè da categorie umane e tangibili, ma da meccanismi simili a quelli di un videogioco, la borsa e i prodotti finanziari, le cripto valute. Fino alla prossima bolla, in una crisi economica infinita, anche quando le cose vanno bene.

 

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L’incertezza e le dipendenze

Dietro la dipendenza da videogiochi o da social network c’è il disagio di non essere, o comunque non sentirci, padroni delle nostre vite. I videogiochi hanno regole precise, funzionano.

In un mondo sempre più confuso, paradossalmente forniscono la sicurezza che alle nostre azioni, almeno all’interno del gioco, corrispondono risposte coerenti. Non solo perché divertono, ma anche per questo piacciono, perché riusciamo a capire che cosa succede.

I social network, non solo ai ragazzi ma a gente di tutte le età permettono il contatto con una quantità pressoché infinita di persone, danno l’idea di partecipare alla vita sociale, con la possibilità però in ogni momento di disconnettersi, staccare la spina, come nella vita reale non si può. Inoltre, siamo contemporaneamente in un luogo fisico, casa, scuola, ufficio, aria aperta, ovunque, e intanto possiamo dialogare, interloquire, litigare, amoreggiare con persone che stanno in qualsiasi posto nel mondo, in maniera non impegnativa, rispondendo oppure no, a piacer nostro, alle notifiche. Anche per questo è assurdo solo pensare che in un futuro tutto questo possa essere sostituito da ambienti immersivi, come il metaverso, che implicano invece un coinvolgimento totale anche sensoriale, come già accade da anni in certi videogiochi. Li ci si va eventualmente in pochi, non certo a miliardi, e per poco tempo, se non abbiamo altro da fare.

La palude dentro lo schermo

A parte i casi patologici individuali di dipendenza e l’allarme nel caso di un loro significativo aumento, il problema grosso dei social network è per l’utente medio scambiare il post pubblicato d’istinto e il “mi piace” per una partecipazione effettiva alla vita pubblica, come un voto alle elezioni, una vertenza sindacale, una discussione tra umani che porta all’elaborazione di un pensiero comune. Ma oltre il consumo immediato, sugli schermi quasi sempre non resta memoria, tutto è assorbito in pochi giorni in una palude indistinta.

Una palude in cui miliardi di persone sembrano annaspare senza toccarsi, e che tuttavia influenza il modo come il mondo comunica e si racconta.

Ad esempio con i politici che invece che nelle sedi istituzionali o di partito fanno dichiarazioni sui “social” e gli stessi professionisti dell’informazione che si sentono in dovere di strizzare l’occhio agli analfabeti che determinano il mercato, per esempio con quegli orribili, spesso indecifrabili video verticali trasmessi circondati dal proprio specchio ingrandito e sfocato, per cui lo schermo del televisore è bello pieno, ma non si capisce niente.

 

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Con il cellulare sempre in mano connesso in tempo reale a tutto il mondo – un potere virtualmente immenso, che fino a pochi decenni fa neanche un dio! – viviamo quasi rassegnati al male e alla paura. Li affrontiamo nei videogiochi, li osserviamo sconfitti negli schermi, dai telefonini al cinema, dagli stessi super eroi di 60 anni fa (alla faccia del mondo che cambia!). E diamo la colpa ai social network, come se fossero una cosa diversa da noi.

 

 

Saperenetwork è...

Paolo Beneventi
Paolo Beneventi
Laureato al Dams di Bologna nel 1980, lavora sulle aree di conoscenza ed espressione attraverso cui soprattutto i bambini (ma non solo) possono partecipare da protagonisti alla società dell'informazione: Animazione teatrale, Video e audio, Fotografia, Libri e storie, Pubblicità, Ambiente, Computer, Web.
Cura laboratori e progetti in collaborazione con scuole, biblioteche, enti pubblici e privati, associazioni culturali e sociali, manifestazioni e festival, in Italia e all’estero. È autore di di video e multimediali, e di libri sia legati alla propria attività che di letteratura per bambini.
Alcuni libri: I bambini e l’ambiente, 2009; Nuova guida di animazione teatrale (con David Conati), 2010; Technology and the New Generation of Active Citizens, 2018; I Pianeti Raccontati, 2019; Il bambino che diceva le bugie, 2020. Video: La Cruzada Teatral, 2007, Costruiamo insieme il Museo Virtuale dei Piccoli Animali, 2014; I film in tasca, 2017; Continuavano a chiamarlo Don Santino, film e backstage, 2018.

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